Il Premio Nobel dell’economia Paul Krugman, nella sua newsletter sul «New York Times», avverte gli europei: rischiate di vivere un remake del 1979. Si riferisce alle lunghe code ai distributori di benzina, provocate dal razionamento di carburante dopo che la rivoluzione islamica in Iran e l’avvento al potere dell’ayatollah Khomeini scatenarono l’iperinflazione dei prezzi del petrolio. Un altro paragone storico, almeno altrettanto calzante, lo si potrebbe fare con l’estate 2000 in California: i blackout elettrici e il ruolo nefasto che vi svolse la Enron, azienda specializzata nella speculazione sui futures, finanza derivata collegata ai prezzi dell’energia. Il caso Enron, che si concluse con la bancarotta più colossale della storia americana fino a quei tempi, ha interessanti analogie con quel che sta succedendo oggi sul mercato Ttf, la Borsa di Amsterdam che di fatto sta fissando il prezzo del gas naturale, almeno per gli italiani.
Il paragone di Krugman richiama l’America del presidente Jimmy Carter, un democratico la cui fortuna politica fu distrutta da quella crisi (inclusa la presa di ostaggi americani nell’ambasciata di Teheran). Una situazione simile per la verità gli europei l’avevano già vissuta durante il primo shock petrolifero, quello del 1973, quando i Paesi arabi riuniti nel cartello petrolifero dell’Opec decretarono un embargo contro gli occidentali colpevoli di aver sostenuto Israele nella guerra dello Yom Kippur. In Italia ci furono allora le «domeniche a piedi», quando non si poteva circolare in auto per il razionamento della benzina. Nelle domeniche a piedi così come nelle code ai distributori Usa del 1979, la scarsità imposta dai Governi nasceva dal tentativo di non scaricare interamente sui consumatori e sulle imprese i rincari alla fonte nei prezzi del carburante. Una delle lezioni fu questa: quando si creano degli squilibri di mercato, fra la domanda e l’offerta, il tentativo di controllare politicamente gli aumenti dei prezzi finisce per accentuare la penuria. Il razionamento è un’alternativa all’inflazione, ma non è detto che sia meglio, perché è una scarsità imposta burocraticamente e spesso colpisce alla cieca.
Per questo dagli Stati Uniti molte voci consigliano ai Governi europei di intervenire con sussidi ai soggetti più deboli (famiglie povere, imprese energivore), anziché con delle forzature dal lato dei prezzi. I rincari dei prezzi possono avere una funzione positiva, ancorché dolorosa: accelerare l’innovazione, sia il risparmio energetico sia l’investimento in fonti alternative. Bloccare i prezzi invece nasconde la realtà e ritarda gli adattamenti. In ogni caso tutt’e due le misure costano alle finanze pubbliche: per gli aiuti alle famiglie e alle imprese il costo è evidente; ma anche un blocco delle tariffe va compensato con soldi pubblici altrimenti le aziende energetiche non riescono a rifornirsi ai prezzi di mercato. Ci sono aziende che fanno extra-profitti, e tassare questi guadagni è giusto. Ma osserviamo i numeri. L’Eni è stata soggetta a una tassa speciale del 25% sui suoi extra-profitti. Per l’anno in corso questo significa che pagherà 1,4 miliardi al Tesoro. Per le casse dell’Eni sono tanti. Sono spiccioli, invece, rispetto alla stangata che si abbatterà su imprese e consumatori italiani, e che lo Stato dovrà in qualche misura compensare. I veri extra-profitti oggi li fa la Gazprom di Vladimir Putin, che nessun governo occidentale ha il potere di tassare. Le entrate fiscali di Mosca sono salite del 32% dall’inizio della guerra in Ucraina: Putin sì, sta raccogliendo lauti benefici dagli extra-profitti delle sue aziende energetiche.
Putin è il grande profittatore di questa crisi energetica, ma sulla sua scia stanno lucrando anche dei paesi che nominalmente fanno parte dei «nostri». Olanda e Norvegia sono i due casi eclatanti di parassitismo dello shock energetico. L’Olanda ha riserve di gas importanti, potrebbe accrescere la sua produzione, ma finora non ha segnalato la disponibilità a farlo. I motivi possono essere «ambientalisti», ma come spesso accade di questi tempi l’ambientalismo è un comodo paravento ideologico, una dottrina sacra in nome della quale si compiono nefandezze di ogni sorta. La Norvegia da parte sua ha addirittura ridotto l’export di gas, adducendo come scusa la necessità di manutenzione ai suoi impianti: un alibi identico a quello usato dalla russa Gazprom. Olanda e Norvegia, come la Russia, stanno lucrando extra-profitti che fanno impallidire quelli dell’Eni.
L’Olanda è la sede della Borsa Ttf, un luogo dove i prezzi del gas naturale si formano senza nessuna trasparenza, alla mercé degli speculatori. Un dato interessante riguarda la dimensione della Borsa. Quella di Londra, dove si scambiano i contratti sul petrolio Brent, muove quotidianamente transazioni del valore di 2000 miliardi di dollari. È un mercato finanziario ma per i volumi trattati è un riflesso dell’economia reale, della domanda e offerta di petrolio. La Borsa Ttf di Amsterdam invece registra in media uno o due miliardi di dollari di transazioni quotidiane: è minuscola, virtuale, in balìa degli speculatori. Non a caso il mercato del gas liquefatto Usa (Henry Hub) registra prezzi che sono un terzo o un quarto di quelli di Amsterdam. Purtroppo i maggiori contratti di fornitura di gas per l’Italia sono agganciati alla Borsa di Amsterdam. E si capisce che quei livelli dei prezzi non dispiacciano affatto ai produttori olandesi o norvegesi. L’immagine di un’Europa unita di fronte a Putin non sta in piedi. Non esiste una politica energetica europea, non esiste una solidarietà europea di fronte al ricatto di Gazprom, al contrario ognuno fa i propri interessi nel modo più cinico. Torno al paragone con la Enron e la crisi energetica che mise in ginocchio la California nel 2000. Il mix allora fu micidiale e le analogie con la situazione attuale abbondano. Da un lato c’era un’imprevidenza dello Stato della California, che non aveva visto i segnali di scarsità energetica; né voleva far pagare alle utenze finali i costi, per cui bloccava le tariffe. A monte, gli squali della speculazione finanziaria videro che il mercato dell’energia in California si stava avvitando in una crisi, e colsero l’occasione per manovrare i prezzi alla Borsa nei contratti futuri. Enron fu la regina di quelle speculazioni, contribuì alla spirale dei prezzi e al collasso energetico, finché ne fu vittima lei stessa.
Il governo Draghi non ha brillato per la sua efficienza in questo campo. Fino all’estate inoltrata ha diffuso messaggi rassicuranti, ha detto di essere a buon punto nelle scorte invernali, ha sottolineato il successo negli sforzi di diversificazione delle fonti energetiche. Nel frattempo però i tedeschi facevano incetta di gas per l’inverno, a ritmi superiori; e varavano piani di razionamento. Infine, complice la campagna elettorale, in Italia è scoppiato il panico. L’autunno sarà tragico per il sistema produttivo italiano, secondo la Confindustria. La stangata elettrica sarà insostenibile per molte famiglie dei ceti medio-bassi. La previdenza di Draghi è stata messa in dubbio. I rigassificatori, che dovevano consentire di aumentare gli approvvigionamenti da nuove fonti (Stati Uniti e Qatar, fra gli altri) non saranno funzionanti prima del 2023, mentre erano stati promessi per la fine del 2022.
Sull’industria italiana rischia di abbattersi uno shock strutturale. Proprio quando la nuova parola d’ordine è il «friend-shoring», cioè una nuova globalizzazione riservata ai Paesi amici, l’Italia diventa meno appetibile per le ri-localizzazioni. A causa della sua vulnerabilità energetica. Ancora prima di questa crisi i costi energetici delle imprese italiane superavano quelli delle concorrenti tedesche e francesi. L’Italia consuma più gas di Germania e Francia, sia per generare elettricità sia come energia immessa direttamente nei processi manifatturieri (dalle acciaierie alla ceramica e piastrelle). E negli ultimi anni era diminuito tra le imprese italiane il ricorso a contratti a lungo termine per il gas naturale, mentre erano prevalsi gli acquisti sul mercato «a pronti», dove la quotazioni «spot» sono più soggette a manovre speculative. Le nuove Enron si accaniscono sull’Italia, perché è una preda ideale.
Nessuna politica energetica comune
Non esiste una solidarietà europea di fronte al ricatto della russa Gazprom e l’Italia è uno degli anelli deboli della catena
/ 12.09.2022
di Federico Rampini
di Federico Rampini