Le guerre possono scoppiare per sbaglio, per equivoco, per un errore di calcolo sulle reazioni dell’avversario. Il caso più celebre e più tragico forse fu la prima Guerra mondiale. La celebre storica americana Barbara Tuchman coniò l’immagine di leader «sonnambuli», che camminarono verso il conflitto senza esserne veramente consapevoli. La guerra commerciale Usa-Cina – assai meno grave e senza spargimento di sangue per fortuna – può essere segnata dagli stessi sbagli nel decifrare l’avversario. Un esempio è di pochi giorni fa, quando Xi Jinping sembra avere interpretato gli attacchi di Donald Trump alla Federal Reserve come un’avvisaglia di crisi per l’economia americana, quindi una prova di debolezza. Di conseguenza la posizione cinese nel negoziato commerciale si è irrigidita su alcune concessioni-chiave. Scatenando così una nuova raffica di minacce da parte di Washington.
Decifrare Trump non è facile, certo. Ma lo sbaglio di Pechino getta un’ombra sull’efficienza di quel regime. Il danno non è solo bilaterale. L’economia mondiale stava celebrando il «cessato allarme», le due locomotive americana e cinese erano ripartite, i timori di una frenata globale stavano sfumando (con sollievo anche per gli europei). I tweet di Trump contro Xi hanno gelato queste speranze. Il presidente americano minaccia di rialzare dal 10% al 25% i dazi che aveva già imposto su 200 miliardi di dollari di importazioni cinesi; aggiunge la possibilità di infliggere ulteriori dazi punitivi del 25% su altre importazioni made in China per 325 miliardi annui. Si torna alla casella di partenza, con gran sgomento delle Borse che rivedono lo spauracchio di un protezionismo a oltranza, con spirali di ritorsioni reciproche.
Oltre all’irrigidimento della Cina, anche il contesto politico americano indurisce Trump. Di fatto gli Stati Uniti sono già entrati in una lunghissima campagna elettorale, col traguardo a novembre del 2020. Chi pensa che Trump sia l’unico a volere lo scontro con Pechino, legga la dichiarazione del capogruppo democratico al Senato, Chuck Schumer: «Tieni duro, presidente. Non indietreggiare. La prova di forza è l’unico metodo per vincere con la Cina». Nei due campi repubblicano e democratico, nessuno ha dimenticato la lezione del novembre 2016. Se Trump è alla Casa Bianca, lo deve a fasce di elettori operai in cinque Stati industriali del Midwest, che furono convinti dal suo linguaggio protezionista. I democratici, tradizionalmente critici sul libero scambio, si erano fatti rubare da Trump una loro «bandiera». Non vogliono ripetere quell’errore fatale.
Stavolta sarà gara all’ultimo sangue, a chi promette le tutele più credibili per quei settori decimati dalla concorrenza cinese. Il globalismo non porta voti; tantomeno alla sinistra.
Trump vuole che Pechino tagli di 200 miliardi in due anni l’attivo commerciale bilaterale con gli Stati Uniti. Vuole anche la fine dei sussidi statali alle industrie tecnologiche, proprio in quei settori strategici che Xi mette al centro del suo «piano 2025» per la supremazia globale. Memore delle tante promesse disattese in passato, Trump immagina una levata dei dazi graduale e condizionata: le tasse punitive verrebbero tolte solo quando le concessioni cinesi siano diventate concrete e tangibili. L’opposizione democratica non gli farà sconti, se dovesse accontentarsi di un accordo di facciata.
Xi è in una situazione difficile. Anche un autocrate ha le sue basi di consenso, le constituency che sorreggono il suo sistema di potere. L’alleanza con la grande industria di Stato, con il complesso militare, con una miriade di soggetti abituati ad essere coccolati e privilegiati in quanto «campioni nazionali», è lo zoccolo duro su cui si regge Xi. D’altra parte una frenata della crescita cinese, dovuta a una caduta delle esportazioni colpite dai dazi, può creare malcontento popolare e ridurre il prestigio del regime.
Trump si attribuisce il merito di un’accelerazione della crescita americana al 3,2%. Questa ripresa è trainata in parte dall’export, è vero, ma è poco probabile che goda un effetto benefico dai dazi doganali (quelli, semmai, dovrebbero ridurre le importazioni). Comunque può negoziare da posizioni di forza, con un tasso di disoccupazione sceso al 3,6% e quindi vicino al pieno impiego. Le ragioni americane in questa vicenda sono innegabili. La Cina usufruisce di regole asimmetriche, troppo favorevoli, che le furono concesse quando entrò nel Wto (l’organizzazione del commercio mondiale) ed era ancora poverissima. Pechino discrimina sistematicamente a favore delle proprie imprese; pratica il furto di know how. Dove Trump passa dalla parte del torto, è soprattutto quando tratta ogni partner da nemico, senza distinguere fra Europa e Cina. Non ha mai articolato una visione inclusiva, una strategia delle alleanze, un nuovo assetto di regole più equo da concordare con altri. Perciò da questo scontro, se va fino in fondo, non soffriranno solo i cinesi.
È importante il capitolo sulla competizione tecnologica, la tutela della proprietà intellettuale e la possibilità per i big americani di vendere servizi di cloud computing su quel mercato. Molto dipende dalla capacità del governo Usa di verificare l’adempimento degli impegni presi. La Cina è effettivamente intenzionata a raggiungere e superare gli Stati Uniti in molti settori di punta, dalle telecom all’intelligenza artificiale. L’approccio per il sorpasso è diametralmente opposto a quello americano: è una strategia «top-down» cioè affidata alla pianificazione dall’alto delle autorità di governo, non alla fioritura di iniziative di mercato. La stessa differenza c’è nel mondo della ricerca dove quella cinese è «mission-driven», quella americana conserva una componente «curiosity-driven». In passato il modello americano si è rivelato superiore, ma questo non significa che lo resterà sempre. La Cina è davvero un Far West della proprietà intellettuale, dove il know how, i brevetti, le scoperte, sono poco tutelati e spesso saccheggiati impunemente. Tuttavia, almeno se uno guarda alle statistiche sui processi, il 95% dei furti di segreti industriali avverrebbe a danno delle stesse aziende cinesi.
Questo significa che Pechino ha interesse a migliorare le sue leggi e il lavoro dei suoi tribunali, perché il danno non colpisce solo gli stranieri. Nella sfida dell’intelligenza artificiale è cruciale Big Data. Un vantaggio della Cina, ovvio ma innegabile: su una popolazione di 1,3 miliardi la raccolta di Big Data è molto superiore.
Altro vantaggio: la natura autoritaria del regime consente una raccolta ancora più invasiva di informazioni sui cittadini. In America sono soprattutto i giovani ad essere rassegnati al fatto che Amazon e Google raccolgono ogni sorta di informazioni su di loro; in Cina dai tempi di Mao tutti danno per scontato che lo Stato sa tutto sulla loro vita privata. Da seguire: l’esperimento del «credito sociale» con cui Pechino accumula informazioni su ogni cittadino per poi assegnargli una sorta di pagella civica, dagli usi molteplici, anche nel campo economico e finanziario. È sempre più vero che Occidente e Asia sono «universi paralleli» per quanto riguarda Internet. Bill Clinton disse che censurare Internet si sarebbe rivelato impossibile, «come inchiodare a un muro la gelatina». Pechino ha inchiodato a un muro la gelatina.
Che cosa resta dell’Occidente? Se Stati Uniti e Unione europea affrontano la sfida cinese in ordine sparso – o addirittura divergente – la relazione transatlantica riceve un colpo fatale? È difficile dire chi «ha cominciato per primo» a dissociarsi dalla lealtà atlantica. Trump ha impostato Make America Great Again (che è solo una risposta tardiva a Make China Great Again…) su un piano puramente bilaterale; ha trattato gli europei come degli avversari alla pari della Cina. Molti europei però avevano già aperto da tempo a investimenti cinesi in settori strategici: la Germania per prima. Ora si assiste a un «liberi tutti» sulla tecnologia 5G, il passaggio alla telefonia mobile della nuova generazione. Sia Londra che Berlino hanno deciso di ignorare le pressioni di Washington, e si forniranno di tecnologia Huawei, made in China. Un altro cavallo di Troia per Xi Jinping?
Nel frattempo, che cosa devono aspettarsi gli europei dal negoziato Usa-Cina che pare in dirittura finale? Una guida preziosa per trovare le risposte la fornisce un recente rapporto dell’Istituto Bruegel, think tank con sede a Bruxelles, diretto da Guntram Wolff. Lo studio è di Alicia Garcìa-Herrero e s’intitola Europe in the midst of China-US strategic competition: What are the European Union’s options?. Parte da due scenari. Il primo è un accordo Trump-Xi che si basi soprattutto su un forte aumento nelle importazioni di prodotti americani sul mercato cinese. Questo avverrebbe a scapito degli esportatori europei, nel senso che la Cina sposterebbe i suoi acquisti da fornitori Ue a fornitori Usa, spesso in concorrenza tra loro negli stessi settori.
Un secondo scenario è un accordo Trump-Xi che strappa a Pechino vere riforme strutturali, tali da rendere il proprio mercato meno protezionista. Questo sarebbe benefico per le imprese europee, che sono sottoposte a trattamenti discriminatori e furti di know how tanto quanto le americane.
Lo studio Bruegel firmato dalla Garcìa-Herrero non si ferma qui: analizza le opzioni dell’Ue in questo «nuovo mondo» definito dalla rivalità strategica Usa-Cina. Continuare a rimanere legati al multilateralismo, spiega, potrebbe essere un’ingenuità: non solo Trump, ma neppure Xi è un vero multilateralista (basta vedere come funziona di fatto la Belt and Road Initiative). Una seconda opzione è investire sulla relazione transatlantica, per costruire un fronte comune verso la Cina: quello che Trump non ha neppure tentato di fare (ma Trump non sarà eterno). La terza opzione è oscillare tra una neutralità fra i due blocchi, e un progressivo scivolamento nell’orbita cinese: è quanto sta accadendo sul dossier Huawei 5G.