Il ventesimo anniversario dell’handover, il passaggio della sovranità su Hong Kong dalla Gran Bretagna alla Cina, che cade il primo luglio, capita in un momento cruciale per il futuro di questa metropoli di sette milioni di abitanti. Venti anni dopo, Hong Kong rimane sospesa tra Oriente e Occidente, tra l’integrazione nel sistema autoritario cinese e un’autonomia – o indipendenza – che oggi sono difficili da immaginare.
Il momento è importante anche per il presidente della Repubblica Popolare e segretario del Partito Comunista Cinese Xi Jinping, che dal 29 giugno al primo luglio dovrebbe condurre la sua prima visita nell’ex-colonia britannica. È in questi giorni e in questi mesi, infatti, che svolge la battaglia politica i cui esiti saranno sanciti dal 19esimo Congresso del Partito che si terrà in una data ancora da definire ma prima della fine dell’anno. In quella sede Xi potrebbe ottenere la riconferma a leader supremo per almeno altri cinque anni (è al potere dal 2012) oppure essere ridimensionato dai suoi numerosi avversari politici – e il primo esito appare di gran lunga il più probabile.
La notizia della visita del numero uno non è ufficiale, ma la stampa filogovernativa locale dà per scontato che presenzierà a una parata della guarnigione dell’Esercito Popolare di Liberazione di stanza ad Hong Kong, un fatto che, se confermato, non farà che dare maggior forza alle manifestazioni di protesta già annunciate dai gruppi di opposizione.
In questi vent’anni due scadenze sono state fondamentali per il movimento democratico dell’ex-colonia britannica: il 4 giugno, anniversario del massacro di piazza Tiananmen del 1989, e il primo luglio, anniversario dell’handover. La tradizione vuole che entrambe le manifestazioni si svolgano a Victoria Park, una grande estensione di verde sull’isola di Hong Kong. Quest’anno, quasi a sottolineare l’eccezionale importanza dell’avvenimento, il governo ha negato agli organizzatori la possibilità di usare il parco. Victoria Park, hanno detto, è già stato prenotato da un gruppo filo-Pechino chiamato Hong Kong Celebrations Association. Inoltre, la polizia ha condotto una massiccia esercitazione contro una supposta minaccia terroristica – che in realtà ad Hong Kong non esiste.
Il punto di non ritorno nei rapporti tra l’ex-colonia britannica – nella quale sotto la Corona non c’era la democrazia politica ma una relativa libertà era garantita da una stampa agguerrita e da una magistratura indipendente – è stato segnato dal cosiddetto Movimento degli Ombrelli. Un movimento che nel 2014 ha bloccato per quasi tre mesi Central, il quartiere delle banche, delle corporation e degli alberghi a sette stelle, in una protesta contro la politica autoritaria di Pechino. Il movimento ha visto scendere in campo le generazioni dei ventenni e dei trentenni che – contrariamente alle aspettative di Pechino e forse di molti altri – non solo non hanno accettato il sistema autoritario ma, al contrario, hanno sviluppato in modo probabilmente irreversibile un’identità separata e su alcuni terreni antagonista a quella «cinese».
Un processo analogo a quello avvenuto a Taiwan dove, a prescindere dall’alternanza al potere tra il Kuomintang, favorevole alla unificazione con la Cina, e l’indipendentista Democratic Progressive Party (DPP), gli ultimi decenni hanno visto un continuo rafforzamento dell’identità «taiwanese», diversa e potenzialmente antagonista a quella dei cittadini della Repubblica Popolare.
Tornando ad Hong Kong, la tornata di elezioni che si è svolta nel 2015-2016 ha visto un successo dell’opposizione nata dal Movimento degli Ombrelli. Il sistema elettorale è solo parzialmente democratico – 35 dei 70 deputati al Legislative Council o Legco, il mini-Parlamento hongkonghese, sono eletti direttamente, i rimanenti vengono scelti dalle «functional costituencies», vale a dire dalle corporazioni professionali dominate dai fedeli di Pechino. Nonostante le limitazioni, sono stati eletti 29 candidati democratici, tra cui una decina di giovani dirigenti del Movimento. Pechino e i suoi alleati locali hanno reagito prontamente, cercando di estrometterli per irregolarità vere o, più spesso, presunte: due di loro, i «localisti» Sixtus Leung – detto «Baggio» per via della sua grande ammirazione per il calciatore Roberto – e Yau Wai-ching, sono già stati espulsi. Altri, tra cui Nathan Law – esponente del partito chiamato Demosisto e fondato dagli ex-dirigenti del movimento studentesco tra cui Joshua Wong, il più popolare presso la stampa occidentale – sono sotto tiro e potrebbero presto subire una sorte analoga.
Pechino è intervenuta direttamente nella vita politica dell’ex-colonia britannica anche in altri modi, arrestando prima quattro editori di libri critici dei leader comunisti, poi uno dei numerosi boiardi di Stato caduti in disgrazia, l’imprenditore Xiao Jianhua: secondo la Basic Law, la cosiddetta «mini-Costituzione» di Hong Kong, la polizia cinese non ha infatti il diritto di compiere arresti nel territorio, ma dovrebbe rivolgersi alla polizia hongkonghese.
Vent’anni fa gli architetti dell’handover, il «piccolo timoniere» cinese Deng Xiaoping e il primo ministro britannico Margaret Thatcher, furono salutati come degli statisti lungimiranti. La loro soluzione al problema del passaggio dei poteri che aveva creato panico in Gran Bretagna e nella stessa Hong Kong, fu l’idea che due sistemi fino ad allora considerati antagonisti – quello autoritario comunista in Cina e quello democratico capitalista ad Hong Kong – potessero convivere, almeno per un periodo limitato. Fu così che nacque la formula «un paese, due sistemi». In base a questa idea, Hong Kong mantenne una magistratura e una stampa indipendenti e la sua propria moneta, il dollaro di Hong Kong. Politica estera e difesa furono invece affidate alla responsabilità del governo centrale. Questi principi furono incorporati nella Basic Law, il cui dichiarato «obiettivo finale» è quello di arrivare ad instaurare nell’ex-colonia britannica un sistema pienamente democratico.
La transizione avrebbe avuto 50 anni di tempo per realizzarsi, vale a dire fino al 2047. Sembrava la quadratura del cerchio: un sistema semidemocratico che si sarebbe gradualmente evoluto, di pari passo – almeno così si pensava allora – con quello della madrepatria. Tutti avevano in mente Taiwan e la Corea del Sud, paesi asiatici che in un tempo molto più breve si erano trasformati da dittature in vivaci democrazie. In Cina questo non è successo: al contrario, sotto Xi Jinping le tendenze autoritarie si sono rafforzate fino a far dubitare della stessa praticabilità di una formula come «un paese due sistemi».