Troppo poco, troppo tardi. Così, in sintesi, è stato accolto l’atteso rapporto delle Nazioni Unite pubblicato dall’Alta commissaria per i diritti umani dell’Onu Michelle Bachelet. Bachelet – criticata da più parti per aver accettato di compiere lo scorso maggio quella che può soltanto essere definita una «visita guidata» nello Xinjiang, regione autonoma nel nord-ovest della Cina – ha pubblicato il rapporto undici minuti prima della scadenza del suo mandato. Dichiarando di essere stata sottoposta a «fortissime pressioni» da ogni parte. Da parte cinese, con espedienti legali di vario genere e minacce di ritorsioni legali ed economiche contro le Nazioni Unite. E da parte di varie organizzazioni per i diritti umani, Amnesty International in primis, che hanno più volte definito «inaccettabile» l’atteggiamento dell’Onu in generale e di Bachelet in particolare. Lei è stata più volte accusata, e da più parti, di «flirtare» apertamente con l’establishment cinese e di tenere un atteggiamento più che morbido nei confronti di Pechino. E il rapporto, dicono, riflette questo atteggiamento.
Nel rapporto, tanto per cominciare, non si adopera mai la parola «genocidio» pur denunciando che «l’entità della detenzione arbitraria e discriminatoria di membri della comunità uigura, kazaka e kirghisa prefigura l’esistenza di crimini contro l’umanità» e sottolineando «le pratiche ricorrenti di tortura, maltrattamenti, cure mediche forzate, pessime condizioni carcerarie, violenze sistematiche, incluse quelle sessuali». Il rapporto conferma inoltre le denunce del World Uyghur Congress: i campi di concentramento dove i prigionieri vengono sottoposti a «rieducazione» forzata, le fabbriche costruite accanto ai suddetti campi in cui 580mila detenuti uiguri vengono costretti a lavorare nella raccolta del cotone. La presenza ossessiva di decine di migliaia di telecamere per il riconoscimento facciale e di sensori che tracciano i movimenti di ciascun individuo: strategia adottata anche nella costruzione cinese del porto pakistano di Gwadar, trasformata in una prigione a cielo aperto come lo Xinjiang. O meglio, in quello che lo scorso giugno Amnesty, in un rapporto sullo stesso argomento, aveva definito «un inferno distopico su scala sconcertante» aggiungendo che: «Dovrebbe scioccare la coscienza dell’umanità che un numero enorme di persone sia stato sottoposto a lavaggio del cervello, tortura e altri trattamenti degradanti nei campi di internamento, mentre altri milioni di persone vivono nella paura in mezzo a un vasto apparato di sorveglianza».
All’epoca Agnès Callamard, attivista di Amnesty, aveva accusato non soltanto Bachelet ma anche il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres di «non aver agito secondo il suo mandato». E non a torto. Mesi prima l’avvocata Emma Reilly, che ha lavorato nell’Alto commissariato per i diritti umani di Ginevra (Unhcr), denunciava la connivenza strettissima tra funzionari Unhcr e rappresentanti della locale ambasciata cinese. In pratica Reilly, producendo documenti ed email, ha accusato l’ufficio dell’Unhcr di passare all’ambasciata cinese nomi e indirizzi di dissidenti, uiguri e non solo, che si sarebbero recati a testimoniare davanti alla Commissione per i diritti umani. I dissidenti e le loro famiglie sarebbero stati quindi intimiditi, arrestati e in alcuni casi torturati.
Incredibilmente, mentre Reilly faceva la sua denuncia, la Commissione per i diritti umani permetteva alla Cina, come ha fatto nel marzo del 2020, di installare nei corridoi del Palazzo delle Nazioni una spregevole mostra fotografica in cui si vedevano uiguri patriottici e felici che danzavano nelle piazze e ai bordi delle strade. D’altra parte la Cina ha ufficialmente smentito ogni parola contenuta nel rapporto dell’Onu dichiarando che «si tratta di risultati basati su informazioni false e scorrette, messi insieme alla meno peggio per servire obiettivi politici». Nella fattispecie, gli obiettivi degli Usa e dell’Ue, che negli ultimi due anni hanno emanato durissime sanzioni, congelando l’accordo bilaterale sugli investimenti tra Ue e Cina e vietando alle imprese americane di importare beni prodotti nello Xinjiang con l’uso del lavoro forzato.
Secondo Pechino non esistono campi di concentramento o torture, ma soltanto campi vocazionali e di rieducazione in cui gli «studenti» uiguri vengono ammessi su base volontaria e che sono più che felici di frequentare. E il sistema orwelliano di sorveglianza sarebbe parte di una strategia volta a combattere il terrorismo e le attività separatiste dello Xinjiang. Gli uiguri difatti, di etnia turkmena e di religione musulmana, non si considerano cinesi e ritengono che lo Xinjiang sia stato illegalmente occupato dalla Cina: peccato che l’Etim (Movimento islamico del Turkestan orientale) è praticamente scomparso, e che i pochi attentati compiuti nello Xinjiang si devono, più che a movimenti separatisti organizzati, a singoli gruppi locali esasperati dal trattamento riservato alla popolazione. D’altra parte, ormai da qualche anno Pechino sta cercando di riscrivere, a proprio beneficio, la definizione di diritti umani cancellando dai parametri di valutazione la libertà di espressione a favore dello sviluppo economico. Il che copre, a guardare da vicino, tutte le violazioni dei diritti umani che potrebbero essere eccepite lungo la Belt and Road Initiative, la Nuova via della seta.
In soldoni: va bene il genocidio dei baloch lungo il China Pakistan Economic Corridor, va bene il genocidio degli uiguri, se sono compiuti in nome dell’aumento del reddito pro-capite. Molti funzionari dell’Onu e molti funzionari dell’Ue a Bruxelles dichiarano, in privato, di aver subito pressioni cinesi, pressioni che rasentano a volte il ricatto. E la macchina di propaganda improntata all’ormai famosa politica cinese del «guerriero lupo» alterna minacce e ricatti a blandizie e denaro sonante. Non è un segreto per nessuno che Pechino faccia shopping di professori, giornalisti, politici, alti funzionari governativi e non solo. E che i bot di propaganda sui social media siano particolarmente attivi e aggressivi. Si spazia dall’invenzione di false giornaliste e blogger, come nel caso dell’inesistente reporter francese Laurène Beaumond che descriveva lo Xinjiang come il paese dei campanelli, alla massiccia pubblicazione di video e foto di moschee linde e colorate con sorridenti uiguri pubblicati per anni, al ritmo di 4-5 al giorno, dall’attuale portavoce del Ministero degli esteri cinese Zhao Lijian.
L’ultimo scandalo, in ordine di tempo, è recente: il portavoce del ministro degli esteri del Pakistan ha dichiarato che il suo paese «sostiene gli sforzi della Cina per portare sviluppo socio-economico, armonia, pace e prosperità allo Xinjiang». Con buona pace degli uiguri che, adesso, chiedono che le Nazioni Unite usino il rapporto «per cominciare un’inchiesta su vasta scala sui crimini contro l’umanità commessi dal Governo cinese e per processare i colpevoli».
Nell’inferno sconcertante degli uiguri
Un rapporto delle Nazioni unite conferma le atrocità compiute da Pechino nello Xinjiang. Ma nemmeno l’Onu è assolta
/ 12.09.2022
di Francesca Marino
di Francesca Marino