Nell’inferno dei profughi Rohingya

Sono stati privati della nazionalità birmana, che spetta loro di diritto, e duramente perseguitati
/ 26.06.2023
di Francesca Marino

«Basta con la vita da rifugiati! Basta controlli, basta verifiche, basta colloqui! Vogliamo tornare a casa, vogliamo un rapido rimpatrio attraverso la carta dati dell’Alto commissariato ONU per i rifugiati! Non cercate di fermarci, vogliamo tornare in Myanmar!». Così recitavano i cartelli che decine di migliaia di Rohingya sventolavano durante una dimostrazione tenutasi di recente nei campi profughi che li ospitano ormai da anni in India. I rifugiati non ne possono più di vivere in tende e abitazioni di fortuna, di essere sotto costante sorveglianza. Non ne possono più della criminalità che ormai dilaga nei campi perché è spesso l’unica attività lavorativa che i profughi possono praticare. Non ne possono più delle ragazze vendute ai bordelli di Calcutta o di Dhaka, del traffico di droga. Di essere un bacino di reclutamento per jihadisti. Di non avere prospettive né futuro. Durante l’ultimo anno molti rifugiati si sono messi in mare su imbarcazioni di fortuna per cercare di raggiungere la Malesia o l’Indonesia e, secondo i dati ufficiali ONU, 348 sono morti in mare. In realtà, nell’ambito di un’iniziativa sostenuta dalla Cina, il Myanmar e il Bangladesh stanno compiendo l’ennesimo sforzo per avviare il rimpatrio di circa 1100 rifugiati Rohingya in un progetto pilota prima dell’inizio della stagione dei monsoni a giugno-luglio: tutto risolto? Non proprio: la situazione è sempre più intricata. Lo stato di Rakhine, dove i Rohingya vivono da secoli, è stato conquistato e annesso al Myanmar, da cui è praticamente separato da una catena montuosa, nel 1784.

Diventato poi parte dell’impero britannico, è rimasto nell’allora Birmania dopo l’indipendenza. I Rohingya, pur cittadini di fatto del Myanmar, sono stati privati della nazionalità birmana, non riconosciuti come uno dei 135 gruppi etnici che vivono all’interno del Paese e fatti oggetto di una campagna persecutoria in grande stile: moschee distrutte (sono musulmani sunniti in un Paese prevalentemente buddista), terre confiscate, stupri etnici e omicidi hanno costretto all’epoca più di 200mila persone ad abbandonare il Paese. Quelli che sono rimasti sono stati dichiarati «stranieri residenti» senza diritto a possedere terra e senza diritti civili o legali. Secondo una legge del 1982 ai Rohingya non è permesso di viaggiare senza ottenere un permesso speciale, non è permesso possedere terreni o proprietà immobiliari. Sono poi soggetti a limitazioni del regime legale in materia di matrimoni e sono costretti a firmare, quando si sposano, un impegno a non mettere al mondo più di due figli. Non solo: sono soggetti a vere estorsioni e a lavorare in regime di semi-schiavitù alle dipendenze dell’esercito e del Governo.

Al principio degli anni Novanta, in seguito all’ennesima campagna di stupri, omicidi e persecuzioni, 250mila Rohingya abbandonavano la Birmania per rifugiarsi principalmente in Bangladesh, inseguendo l’illusione di poter essere meglio accolti in uno di popolazione a maggioranza musulmana sunnita. Tra il 9 ottobre e il 2 dicembre 2016, secondo le agenzie umanitarie, sono arrivati a Cox Bazaar, in Bangladesh, 21mila Rohingya in seguito all’ennesima ondata di violenze. Seguiti nell’agosto del 2017 da altri 750mila profughi, sfuggiti a un autentico genocidio, che da allora vivono nei campi in condizioni più o meno precarie nonostante gli aiuti umanitari. Tutte le pressioni fatte sul Myanmar per riprendersi i profughi e far cessare l’emergenza umanitaria sono cadute nel vuoto. Il governo di Naypyidaw aveva difatti accettato soltanto una proposta di rimpatrio sponsorizzata dalla Cina, sospettata con buone ragioni di stare dietro a quella che è stata definita «una pulizia etnica da manuale»: riprendere i Rohingya, ricollocandoli però non più nello stato di Rakhine, ricchissimo di minerali ed essenziale ai progetti di connettività stradale ed economica cinesi, ma nel sud del Paese. L’ultimo tentativo di rimpatrio, il «progetto pilota», non si discosta di molto da quella proposta.

I Rohingya sarebbero rimandati nel Rakhine, a casa loro, ma in «strutture di reinsediamento» appositamente costruite dalla giunta militare che governa il Myanmar. In altri campi profughi, in parole povere, in condizioni forse ancora peggiori di quelle attuali. Il Consiglio militare di Naypyidaw, difatti, si riferisce ancora ai Rohingya come «bengalesi» e intende emettere carte di verifica nazionali che renderebbero di fatto i rifugiati immigrati illegali nel loro Paese, identificandoli come stranieri e limitandone la libertà di movimento e la possibilità di lavorare. I Rohingya chiedono invece il pieno ripristino dei loro diritti di cittadinanza, secondo quanto stabilito dall’ONU, e di poter tornare nelle loro case e alla loro vita quotidiana senza essere considerati cittadini di terza classe. Il resto del mondo, chiede Human Rights Watch, «non dovrebbe dimenticare le ragioni che hanno costretto i Rohingya a diventare profughi, e riconoscere che da allora nulla è cambiato». E agire di conseguenza.