«Nella Chiesa nessuno è fuori posto»

Durante il viaggio apostolico in Ungheria e Slovacchia Bergoglio ha ribadito la necessità di abbattere i muri
/ 20.09.2021
di Giorgio Bernardelli

Di nuovo in viaggio, ripartendo dall’Europa, il terreno più difficile. Perché se a marzo era stato facile spendere l’aggettivo storico per la visita di papa Francesco a Mosul, anche nelle impaurite città mitteleuropee per il cattolicesimo si sta giocando una sfida esistenziale. Un tempo icona della fede che aveva resistito al comunismo, oggi rischiano infatti di trasformarsi in una trincea dove i cristiani pensano solo a difendersi da un mondo che va in direzione contraria. L’esatto opposto rispetto alla «Chiesa in uscita» di cui parla Bergoglio.

Era per questo un appuntamento molto atteso il viaggio apostolico che da domenica 12 a mercoledì 15 settembre papa Francesco ha compiuto in Ungheria e Slovacchia. Si trattava del primo viaggio dopo l’intervento all’intestino a cui il pontefice si è sottoposto due mesi fa a Roma. E molto si era parlato nelle scorse settimane delle sue condizioni di salute, con il consueto corollario di voci su dimissioni e futuro conclave. In realtà queste giornate hanno mostrato un Francesco che (a quasi 85 anni) resta in grado di reggere bene un programma intenso di incontri, discorsi e celebrazioni. E nella sua agenda per i prossimi mesi ha già in novembre la trasferta a Glasgow per parlare alla Cop 26 sul clima e probabilmente anche un altro viaggio a Malta e Cipro poche settimane dopo.

Per questo a dominare l’attenzione è stato soprattutto un altro tema: l’annunciato incontro con il premier ungherese Viktor Orban, simbolo di quel cattolicesimo identitario e sovranista lontanissimo dallo stile che Francesco fin dall’inizio del suo pontificato ha impresso alla Chiesa cattolica. Il papa dell’accoglienza ai migranti insieme al premier dei muri alzati per fermarli (e oggi freddissimo persino di fronte agli esuli in arrivo dall’Afghanistan). Oltre che il capo di governo della contestata legge contro «la promozione dell’omosessualità» – da tempo nel mirino delle istituzioni europee – faccia a faccia con il pontefice dell’ormai celebre frase «chi sono io per giudicare?».
Francesco ha fatto di tutto per depotenziare il confronto. Già nel programma del viaggio aveva scelto di dare alla tappa di Budapest un carattere strettamente ecclesiale, con un unico grande appuntamento: una messa celebrata a conclusione del Congresso eucaristico internazionale. Il faccia a faccia privato con Orban c’è stato, com’era ovvio che fosse, ed è stato anche il primo atto del viaggio descritto in maniera opposta dai protagonisti. «Tra i vari argomenti trattati – si legge nel comunicato ufficiale diffuso dal Vaticano – vi sono stati il ruolo della Chiesa nel Paese, l’impegno per la salvaguardia dell’ambiente, la difesa e la promozione della famiglia». «Gli ho chiesto di non far perire il cristianesimo in Ungheria», ha scritto invece Orban in un post sulla sua pagina Facebook. E il suo vice Zsolt Semjén gli ha fatto eco sbandierando la dichiarazione (non poi così sorprendente) secondo cui per il pontefice il matrimonio «è solo quello tra un uomo e una donna».
La verità è che papa Francesco guardava altrove; e in tutti gli appuntamenti successivi del viaggio non ha mancato di marcare le distanze rispetto alle battaglie sovraniste. Nella stessa Budapest, per esempio, ha detto ai vescovi ungheresi che «la diversità fa sempre un po’ paura, ma è una grande opportunità per aprire il cuore al messaggio evangelico». Niente rigide difese della «nostra cosiddetta identità» – ha esortato – ma «apertura all’incontro con l’altro». Nell’Ungheria delle polemiche intorno a Soros, poi, ha colto l’occasione dell’incontro con la comunità ebraica per denunciare l’antisemitismo che «ancora serpeggia» in Europa.

Ma è stato soprattutto nei giorni successivi in Slovacchia che Bergoglio ha preso con forza le distanze dal cattolicesimo declinato come vessillo identitario. In una terra segnata dal martirio di chi in nome della sua fede ha sofferto il carcere e la persecuzione negli anni del comunismo, papa Francesco ha detto che la croce di Gesù non può essere un «oggetto di devozione e tanto meno un simbolo politico». Niente «bandiere da innalzare» ma un punto di riferimento da contemplare come «sorgente pura di un modo nuovo di vivere».
Il senso pieno di queste parole – come suo solito – l’ha mostrato soprattutto con un gesto: la visita al quartiere Luník IX della città di Košice. Palazzoni privi di gas e acqua corrente, dove vive la maggiore comunità Rom della Slovacchia. A loro papa Francesco ha detto che «nessuno nella Chiesa deve sentirsi fuori posto o messo da parte». Aggiungendo che «giudizi e pregiudizi aumentano solo le distanze. Ghettizzare le persone non risolve nulla. Quando si alimenta la chiusura prima o poi divampa la rabbia. La via per una convivenza pacifica è l’integrazione».

Da queste giornate nel cuore dell’Europa, dunque, papa Francesco esce rilanciando la sua sfida della «fraternità», la parola chiave della sua ultima enciclica «Fratelli tutti» ma anche la sua esortazione al mondo alle prese con il dopo-pandemia. L’ha ripetuta anche in un contesto come quello dei Paesi del gruppo di Visegrad, dove l’euforia per la caduta della cortina di ferro e l’allargamento a est dell’Unione europea ha lasciato in fretta il campo a nuove chiusure. Proprio qui ai giovani ha rivolto l’invito a «non disconnettersi dalla vita, fantasticando nei sogni», che la cultura digitale oggi alimenta. In Ungheria e in Slovacchia le folle si sono radunate per incontrarlo e applaudirlo come sempre. Francesco resta per tutti una grande icona. Ma la domanda rimane: quanto le sue parole sono destinate a lasciare il segno realmente nell’Europa di oggi? Quanto le stesse Chiese cattoliche locali – impaurite da un contesto sempre più secolarizzato – sono decise a prendere le distanze dal modello di Orban e dalle sue polarizzazioni identitarie per provare davvero a rivolgersi a tutti, come vorrebbe il pontefice? L’impressione è che su questo punto la partita resti aperta. E non è detto che le migliaia di persone radunate per una messa siano un indicatore interessante su chi sta vincendo.