Forse Donald Trump dovrebbe viaggiare più spesso all’estero. O magari rimanerci per sempre. Non la pensano così la maggior parte dei cittadini europei, immagino. Però sta di fatto che il suo primo viaggio all’estero è stato un discreto successo. Magari lo è stato perché le aspettative di partenza erano talmente basse, che ci voleva poco. Di certo la sua prima uscita ufficiale è stata meno disastrosa dei suoi primi quattro mesi di governo. Deve avere contribuito il fatto che fuori dalle frontiere degli Stati Uniti Trump è parso fidarsi meno della sua impulsività, della sua improvvisazione. Ha letto i discorsi che gli erano stati preparati, senza staccarsi quasi mai dalla traccia ufficiale. Ha smesso di twittare insulti e aggressioni mattutine ai suoi avversari. Già questo sembra un miracolo. E poi è riuscito a distrarre almeno un po’ l’attenzione dagli scandali che lo perseguitano in patria, soprattutto quel Russiagate che continua a far pesare ombre sulla legittimità della sua elezione.
La tappa in Arabia Saudita è senz’altro criticabile per chi abbia a cuore i diritti umani, o sia contrario alle vendite di armi, o sia preoccupato per il ruolo di quel regime oscurantista nel finanziare moschee e madrasse fondamentaliste in giro per il mondo. Però le armi all’Arabia Saudita, va ricordato, l’America le ha sempre vendute, anche quando aveva presidenti democratici. Il maxi-contratto di forniture militari da 110 miliardi, che Trump ha firmato a Ryiad, era stato in buona parte preparato durante l’Amministrazione Obama. La tappa in Israele è servita a dimostrare che Trump ha un rapporto ottimo, perfino idilliaco, con Benjamin Netanyahu: e questo va benissimo all’elettorato conservatore negli Stati Uniti.
La photo-opportunity in Vaticano è servita a seppellire il ricordo delle dure polemiche fra papa Francesco e Trump in campagna elettorale. Alla Nato il presidente americano è tornato a dire che gli europei devono spendere di più per la propria difesa: anche questa non è una novità, Barack Obama diceva la stessa cosa. Trump lo dice in maniera più dura, più imperiosa, e anche questo va benissimo alla sua base. C’è stato un increscioso incidente tra l’intelligence americana e quella inglese dopo la strage di Manchester, per le fughe di notizie che gli americani hanno dato ai propri media: e questo ci riporta in parte a quella «guerra delle spie» che fa da sfondo al Russiagate.
Ma il bilancio politico del viaggio all’estero forse incuriosisce meno degli aspetti di colore. Avendolo io seguito fin dalla partenza a Washington, in molti mi chiedono «che effetto fa» viaggiare con lui. Per me il paragone era costante, con le mie esperienze precedenti. Otto anni della mia vita, infatti, li ho passati a inseguire l’Air Force One…
È un lavoro come un altro. E sono stato in buona compagnia; anche se l’ultima volta ero l’unico italiano nella carovana. Per otto anni mi ero fatto i viaggi internazionali di Obama, questo è stato il primo al seguito di Trump. Alla partenza era impossibile trattenere la malinconia. Per il tempo che passa, in generale. Per la diversità dei due personaggi, va da sé. Mi ero talmente abituato a quell’altro, era «il mio presidente» e basta. Avevo pure preso la cittadinanza Usa durante il suo mandato. Sembra strano che questo viaggi sullo stesso aereo, stesso protocollo, stesse manifestazioni di ossequio da parte dei leader stranieri… Un brutto sogno è la nuova realtà permanente.
Tanti dettagli sono identici. Come sempre, e contrariamente alle leggende, noi giornalisti non viaggiamo sull’Air Force One. La Casa Bianca noleggia un aereo per la stampa, anche se lo fa partire da una base militare vicina a Washington (Joint Base Andrews) e ci fa viaggiare sopra parecchi uomini del Secret Service che ci scortano/sorvegliano: così veniamo ispezionati nel modo più approfondito possibile alla partenza, i cani anti-esplosivo frugano tra i nostri zainetti, poi siamo ingoiati nel convoglio di sicurezza presidenziale, semplificando i controlli successivi.
Sempre uguali i disagi e la fatica: per precedere l’Air Force One, per essere già sul posto quando il Commander-in-Chief scende dalla scaletta, molte partenze sono alle tre del mattino. Tanti voli di ritorno coincidono col tempo di consegna degli articoli, per fortuna il charter ha un wi-fi che funziona in volo discretamente. Quattro notti in quattro alberghi diversi, due notti insonni in aereo, sei Stati diversi in sei giorni, è una tabella di marcia normale. Si viaggia schiacciati come sardine in economy, svegli tutta notte a digitare furiosamente sui laptop, anche se il conto finale che la Casa Bianca consegna ai nostri giornali è da prima classe. Si scrive in piedi in un palazzo presidenziale, sull’asfalto dell’aeroporto durante una tempesta di sabbia, o in una sala stampa dove urlano nei microfoni i colleghi delle tv e radio. Un po’ di zen mi aiuta.
Gli americani hanno un’altra tattica, non proprio zen: la bulimia. La logistica prevede come un obbligo sacro che ci sia sempre a nostra disposizione tanto cibo, per lo più pessimo, ad ogni tappa del viaggio, charter incluso. Molti colleghi compensano stress e fatica ingozzandosi. In piena notte compaiono negli alberghi dei buffet di junk-food. Non è uno sport per tutti, infatti l’età media della carovana continua a scendere. Sono ormai circondato da trentenni, ogni tanto mi pare di essere in gita scolastica. Vantaggio dell’età e della relativa inesperienza: tutto gli sembra nuovo e li diverte, prendono i disagi più estremi col buonumore, e mi fa un gran bene, è comunicativo.
Il compenso? Viaggiare dentro la carovana della Casa Bianca offre un privilegio: l’accesso. Avere contatti con l’entourage del presidente, coi suoi consiglieri più autorevoli, consente di «decifrare» quel che accade più in fretta e con più profondità. Grossa differenza da Obama a Trump. L’altro si era circondato di persone di fiducia, competenti e affidabili, che mi hanno aiutato nel mio lavoro. Valeva la pena saltare tante notti di sonno, per ricevere in cambio informazioni di prima mano. Al seguito di Trump? Tanti parenti stretti, e una serie di collaboratori sull’orlo di una crisi di nervi. Qualsiasi cosa dicano, il capo può smentirli un minuto dopo. Mentre viaggiavamo correvano voci sul licenziamento imminente del suo portavoce. Vero, falso, chissà. La nostra carovana era stremata e polverosa come sempre, con in più un’incognita nuova: il non sapere dove stessimo andando.