Non poteva che venire dalla Svezia, il colpo di frusta dei ragazzi di tutto il mondo agli adulti distratti di fronte alla morte annunciata del pianeta, ai politici in tutt’altre faccende affaccendati, a tutti coloro che negano l’urgenza di darsi da fare per limitare i danni, fermare il disastro climatico che incombe, salvare il salvabile. Non è casuale che proprio davanti al Riksdag, il parlamento di Stoccolma, una ragazzina di quindici anni abbia avviato una protesta destinata a uno sviluppo spettacolare. È un giorno d’agosto dello scorso anno quando Greta Thunberg decide di marinare la scuola e si installa vicino alla soglia di quell’austero palazzo.
Porta un cartello su cui sta scritto Skolstreik för klimatet, sciopero scolastico per il clima. A chi l’avvicina enuncia una semplice verità: il mondo sta andando a rotoli e la politica parla d’altro. Poi, dopo avere protratto il suo personale sciopero fino alle elezioni parlamentari, si ripete ogni venerdì. È sola ma entro pochi mesi milioni di ragazzi la seguiranno. Nasce da quella protesta individuale il terremoto denominato Fridays for future, che rapidamente si irradia nei cinque continenti.
La scintilla è venuta da Stoccolma perché proprio qui nacque nel Novecento una visione di armoniosa convivenza sotto il segno della giustizia denominata folkhemmet, casa della gente. Era la prospettiva di una società equa e pacifica, figlia della tradizione socialdemocratica svedese, che garantiva a tutti un generoso stato sociale e fu considerata una terza via fra socialismo e capitalismo. Quando negli anni Trenta fu primo ministro Per Albin Hansson, accanto alla causa del welfare cominciò a profilarsi quella ecologica, più tardi sarà proprio l’intreccio fra stato sociale e protezione ambientale il grande sogno di Olof Palme.
Non è un caso che alcuni attribuiscano il suo assassinio a qualche interprete nel segno dell’estremismo violento delle esigenze del mondo industriale, preoccupato dalle aperture socializzanti di Palme e probabilmente dalla sua fissazione ecologica. La fiaccola sarà ripresa all’inizio del nostro millennio da un altro primo ministro socialdemocratico, Goran Persson, che introdurrà esplicitamente nel suo programma il concetto della priorità verde come elemento dello stato sociale.
Alcune decine di anni dopo Palme, appare evidente che la questione non può essere circoscritta alla Svezia, né a nessun altro singolo paese. Impossibile ritagliarsi una idilliaca folkhemmet, una frazione di felicità sociale e ambientale, in un mondo globalmente impazzito. Le correnti rimescolano i mari, l’aria circola ignorando le frontiere, se le temperature schizzano verso l’alto per nessuno c’è scampo. Quanto va accadendo con i fridays appare una vicenda ai limiti della magia, come se la Svezia avesse reagito all’impossibilità di isolarsi nel suo modello ideale proiettando nel mondo la sua visione.
Come se lo avesse fatto attraverso questa ragazzina minuta e determinata, per nulla intimorita da una condizione fisica segnata dalla sindrome di Asperger, né dalla difficoltà dell’impresa. Probabilmente non ne era consapevole ma la piccola Greta aveva alle spalle la grande tradizione sociale del suo Paese quando volle passare all’azione, con il suo cartello di protesta, con la sua assenza ingiustificata da scuola, con il suo desiderio di «fare qualcosa».
Un anno dopo la solitaria protesta di Stoccolma, dopo avere illustrato le sue ragioni in molte città d’Europa e al parlamento europeo, ecco Greta alle Nazioni Unite. È arrivata a New York spinta dal vento, la più classica fra le energie rinnovabili che la natura mette a nostra disposizione, e quando la sua barca a vela è approdata alla banchina c’era una folla a riceverla. Poi, nel palazzo di vetro, ecco la vasta platea dei rappresentanti dei governi mondiali. Lei li affronta senza timore, ma il viso rigato di lacrime manifesta il suo turbamento. Parla del clima che sta cambiando con un ritmo accelerato, del futuro rubato ai giovani, mentre i politici parlano solo di soldi e di crescita.
Li interpella con durezza: «Come osate?» Offre alla scena internazionale una rappresentazione iconica del suo ruolo planetario: quando passa accanto a lei, diretto alla tribuna, il presidente americano Donald Trump lei lo fissa con lo sguardo impietrito. Trump non è forse il più influente fra coloro che negano o sottostimano la crisi climatica?
Il fermento svedese ha fatto lievitare la consapevolezza dei ragazzi nel mondo intero. A centinaia di migliaia riempiono le piazze con i loro cartelli che riecheggiano la denuncia di Greta e gridano gli slogan che le sono cari: le politiche irresponsabili che trasmettono ogni sorta di guai alle generazioni che verranno, il furto del futuro, la necessità di darsi una mossa, subito, per proteggere quello che si può ancora proteggere. I cortei confermano che c’è ben altro, nel mondo giovanile, che ragazzi alcolizzati o inebetiti dalle droghe.
Questa incredibile pressione induce i politici di alcuni paesi a proporre l’abbassamento a sedici anni dell’età minima per partecipare alle elezioni. Sono attualmente pochi gli Stati che fanno votare i sedicenni: ma come si fa a escludere dal diritto elettorale chi manifesta con tanta determinazione, proponendo un tema che chiama direttamente in causa la politica e la controversa arte del governare?
Certo non mancano le critiche, investono la ragazzina svedese e i milioni di giovani che la seguono. Che cosa vogliono questi mocciosi?, si chiedono i più misoneisti fra coloro che orbitano attorno al verbo conservatore. In Italia hanno coniato per loro un nomignolo beffardo e crudele: gretini. Dicono che Greta e i suoi compagni non basano la loro azione su fondamenti scientifici, loro si difendono citando ricerche e studi eloquenti e attendibili. Li accusano di essere digiuni di conoscenze fisiche, geologiche, climatologiche e loro rispondono che non serve essere scienziati per assistere ai ghiacciai che si sciolgono a ritmo sempre più rapido, ai cicloni devastanti, alle acque marine che salgono e diventano sempre meno accoglienti per tante forme di vita.
Arrivano ad attaccare Greta per la sua patologia che la renderebbe poco credibile, alcuni si spingono fino al sessismo più becero, come è ormai tradizione per gli haters, gli odiatori che spargono a piene mani i loro veleni in rete.
Tutta gente incapace di riflettere sulla straordinaria dignità di questa mobilitazione, sul futuro che interroga. Conservatori, si chiamano, ma in realtà proprio Greta e i suoi ragazzi vogliono «conservare» il pianeta nelle sue condizioni originarie, mentre le politiche conservatrici alterano quelle condizioni nel nome dello sviluppo e del profitto. Lo fanno, denunciano i ragazzi dei fridays, rifiutando di limitare lo sfruttamento delle risorse e le emissioni di quei gas a effetto serra che contribuiscono al riscaldamento globale e dunque alla crisi climatica. Anche se è vero, come molti fanno notare, che il cambiamento del clima non deriva solo da ragioni antropiche ma anche da cause naturali, non c’è dubbio che il contributo dell’industrializzazione a questo fenomeno è stato essenziale, e la sua riduzione porterebbe evidenti vantaggi.
Per questo il modello svedese esportato da Greta Thunberg, nella sua lineare semplicità, seduce i giovani di tutto il mondo e del resto non soltanto i giovani. Lo spettacolo di quel ghiacciaio sotto il Monte Bianco che si sta sgretolando davanti al nostro sguardo impotente contiene implicita una sfida: sapremo bloccare quello e milioni di altri disastri simili? Le generazioni future potranno ancora ammirare quelle affascinanti distese di ghiaccio o saranno tutte finite in mare, trasformando il mare stesso in un mostro che inghiotte la terra? Chi non ama la piccola svedese l’accusa di essere manipolata e pilotata, attraverso un’operazione mediatica studiata a tavolino. Lei non dà certamente l’impressione di avvalorare una simile ipotesi, ma se anche così fosse non verrebbe meno la reale sostanza del problema, che Greta e tutti quei ragazzi ci propongono come letteralmente esistenziale.