Secondo la tradizione il mese ebraico di adar si contraddistingue per la gioia che lo pervade e che giunge all’apice in occasione della festività di Purim, il carnevale, che cade nel suo quattordicesimo giorno (quest’anno il 7 marzo del calendario civile), un mese esatto prima della Pasqua. Nei giorni scorsi, tuttavia, Israele ha fatto ingresso nel suo mese piu gioioso con il «cuore» pesante.
L’ostinazione del governo Netanyahu ad approvare in prima istanza la tanto contestata riforma giudiziaria ha infatti inasprito ulteriormente le proteste e gli scioperi che divampano in tutto il Paese, l’economia vacilla, lo shekel, la moneta, si va indebolendo ogni giorno che passa, mentre in Cisgiordania proseguono scontri drammatici.
Solo mercoledì a Nablus l’ennesima operazione dell’esercito israeliano ha provocato la morte di oltre dieci palestinesi e un centinaio di feriti, e la tensione è alle stelle, anche in vista dell’approssimarsi del Ramadan.
Per estraniarsi dalle preoccupazioni e percepire a pieno l’euforia del nuovo mese è necessario adentrarsi nei quartieri ultraortodossi dove vivono i cosiddetti charedìm, letteralmente «timorosi». Quest’espressione ha la sua origine nell’Europa del 1800, quando è stata adottata per distinguere le comunità che osservavano scrupolosamente uno stile di vita tradizionale nel pieno rispetto delle norme del diritto ebraico che molti ebrei cominciavano invece ad abbandonare in conseguenza dei processi di laicizzazione, integrazione, assimilazione o modernizzazione che dir si voglia. In seguito alla Seconda Guerra Mondiale i superstiti di tali congregazioni dell’Europa orientale si radunarono intorno ai loro rabbini, finendo per emigrare in particolare in Israele e negli Stati Uniti e secondo un autocensimento del 2022 in Israele costituirebbero oggi circa il 13% della popolazione.
Comunicano con i manifesti
I charedìm cercano per quanto possibile di evitare il contatto con una cultura che non sia la loro, non hanno dunque la televisione, se utilizzano internet si servono di appositi filtri, stampano giornali per conto proprio e comunicano principalmente attravero l’affissione di manifesti sui muri, i cosiddetti pashkavìlim. Vivono una sorta di esistenza parallela al resto della popolazione, concentrati in quartieri o città interamente concepiti per soddisfare le loro esigenze, usi e costumi. L’isolamento si riflette ad esempio sulle certificazioni alimentari prodotte sotto la stretta sorveglianza di rabbini di loro fiducia e più severe di quelle emesse dalle autorità rabbiniche locali.
Lo stesso vale per le istituzioni scolastiche, rigorosamente divise tra maschili e femminili per motivi di pudore e modestia. Gli uomini studiano nelle yeshivòt, le scuole rabbiniche di grado diverso, non prestano servizio nell’esercito e per la maggior parte proseguono gli studi anche una volta sposati, percependo modesti assegni di mantenimento.
Le donne, pur sposandosi molto giovani e facendo una media di 6 o 7 figli, in molte comunità sono ancora le uniche a portare a casa uno stipendio. Anche per questo motivo, a differenza degli uomini che dedicano la maggior parte dello studio al Talmud e all’interpretazione rabbinica delle Scritture, già dai gradi inferiori godono di un’istruzione più ampia e variegata, che comprende anche materie «laiche» per poter fare ingresso nel mondo del lavoro.
Negli ultimi anni le ultraortodosse si vanno emancipando dal settore dell’istruzione per addentrasi in ambiti lavorativi diversi che vanno dalla grafica alla contabilità, dall’assistenza sociale al telemarketing e al segretariato. Inoltre sono sempre più richieste dalle società di high-tech che offrono loro corsi di formazione e programmazione informatica, attirate anche dal fatto che si accontentano di stipendi più bassi.
Sono dunque in aumento anche le università pubbliche e private che offrono loro facilitazioni all’ingresso, per eludere la mancanza del diploma di maturità, e persino corsi separati dal resto degli studenti. Le donne ashkenazite portano la parrucca, mentre le sefardite generalmente un copricapo o un cappello, dal momento che i rabbini sefarditi si oppongono spesso all’uso delle parrucche per ragioni di modestia.