Nel libero Kashmir non c’è libertà

La testimonianza di Aziz, nato e cresciuto in una regione occupata dal Pakistan e costretto a fuggire in Svizzera poiché perseguitato dagli estremisti islamici. «Sono stato arrestato per blasfemia e torturato, mi vogliono morto»
/ 12.07.2021
di Francesca Marino

«Sono nato e cresciuto nel Jammu e Kashmir occupato dal Pakistan e sono membro della Jammu and Kashmir national student federation (Jknsf), un’organizzazione socialista rivoluzionaria che lotta per la libertà del cosiddetto “azad” (libero) Kashmir e per i diritti fondamentali delle persone che ci vivono. L’organizzazione si batte anche contro l’estremismo religioso e promuove una lotta politica pacifica». La storia di Aziz, che adesso vive in Svizzera come rifugiato politico, comincia da qui.

«Fin dal 1996 – spiega – ho lavorato per smascherare gli estremisti religiosi e i loro principi che stanno riportando il Paese all’età della pietra. Il Kashmir pakistano difatti, il cosiddetto “libero Kashmir”, è il posto in cui agli estremisti islamici viene lasciata mano libera dal Governo. È il posto in cui si reclutano adolescenti per combattere la jihad contro le forze indiane, in cui si fa ai ragazzi il lavaggio del cervello, gli si dà un minimo di addestramento militare e poi li si manda a morire in nome di Dio dall’altra parte del confine. Ogni volta che qualcuno perde la vita gli estremisti guadagnano più seguaci. Promettono il paradiso nell’altro mondo e denaro alle famiglie in questo». I cosiddetti «martiri» vengono osannati via social media e nelle comunità. Ogni morte porta più denaro alla causa, e più morte.

Lo schema viene felicemente applicato dalle organizzazioni terroristiche suddette (le stesse di cui Islamabad si affanna a negare l’esistenza spacciandole per organizzazioni umanitarie), tanto da aver indotto la comunità internazionale a includere di recente il Pakistan (assieme alla Turchia) nella Child soldier recruit list: la lista dei Paesi che si servono di bambini-soldato. Aziz e i suoi, via social media e con conferenze e dibattiti, cercavano dunque di promuovere una visione alternativa al martirio per forza e alla jihad. Di promuovere un futuro in cui pianificare la propria vita e non soltanto il miglior modo in cui morire. «All’improvviso  ci siamo accorti che il nostro seguito sui social media aumentava – dice Aziz – ma che le organizzazioni in questione, supportate da simpatizzanti in tutto il Paese, avevano cominciato contro di noi una vera e propria campagna di diffamazione accusandoci principalmente di essere contrari alla religione e contro i principi islamici. A un certo punto, nel settembre del 2016, la Jamaat-ud-Dawa (un’organizzazione terroristica, secondo le Nazioni unite) ha cominciato una vera e propria campagna persecutoria nei miei confronti, accusandomi di aver piazzato in alcune delle loro moschee e delle loro madrasa (scuole religiose) del materiale anti-islamico». È interessante notare che, mentre Muhammad Hafiz Saeed (il terrorista più amato dai servizi pakistani) e i suoi facevano campagna contro Aziz, il ragazzo non si trovava nemmeno in Pakistan ma in Arabia Saudita per lavoro. «Quando sono tornato in Pakistan non avevo idea di cosa stesse succedendo», afferma. «Non avevo idea che stessero cercando di accreditarmi come leader del gruppo e di dare quindi un esempio a tutta la comunità, accusandomi di blasfemia».

Essere accusati di blasfemia in Pakistan è peggio, molto peggio di essere accusati di omicidio. Secondo la legge islamica, difatti, se ammazzi qualcuno te la puoi sempre cavare pagando il cosiddetto «prezzo del sangue». Se ti accusano di blasfemia, invece, la pena di morte è quasi certa. Aziz è stato dunque denunciato dai terroristi della Jamaat-ud-Dawa per essere ateo, comunista e quindi blasfemo per definizione: «Sono andati nelle scuole, nelle università e nelle madrasa chiedendo la mia impiccagione immediata e minacciando di eseguire la sentenza personalmente se io non fossi stato condannato. Alcuni partiti progressisti hanno cercato di sostenermi e hanno organizzato manifestazioni a mio favore, ma sono stati attaccati da uomini armati della Jaish Muhammad e della Jamaat-ud-Dawa. La polizia è dovuta intervenire per evitare un bagno di sangue». Così Aziz è stato arrestato ma il suo arresto è stato ufficialmente registrato soltanto dopo cinque giorni. Cinque giorni durante i quali è stato torturato, mentalmente e fisicamente, dalla polizia e dai servizi segreti.

Dopo, per colmo di ironia, è stato mandato a Muzzaffarabad e prodotto davanti a una Corte dell’Antiterrorismo. A Muzzaffarabad è rimasto due mesi, due mesi in attesa che le accuse fossero formalizzate perché: «Nessun avvocato voleva rappresentarmi. Siccome sono stato arrestato per blasfemia, temevano di poter essere incriminati per lo stesso reato soltanto per avermi difeso». Trovato un avvocato coraggioso, Aziz è stato rilasciato su cauzione. La polizia però ha chiarito alla famiglia che il ragazzo doveva abbandonare il Paese immediatamente, altrimenti sarebbe stato arrestato ancora una volta, su pressione dei gruppi jihadi, o ammazzato senza tanti complimenti. «Sono stato nascosto da amici per quindici giorni, mentre la mia famiglia cercava disperatamente di farmi ottenere un visto di espatrio. Finalmente nel febbraio 2017 sono fuggito: prima in Arabia Saudita e da lì in Svizzera». Dove cerca adesso di dare voce a coloro che sono stati meno fortunati di lui. A quelli che non ce l’hanno fatta a scappare, a quelli che non hanno molta altra scelta che diventare jihadi o morire per mano dei jihadi suddetti. A quelli che scompaiono ogni giorno nel nulla.

Secondo l’Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani ci sono «informazioni credibili» sulle sparizioni forzate di cittadini del Kashmir pakistano e «in quasi tutti i casi le vittime affermano che le agenzie di intelligence pakistane sono responsabili delle sparizioni». Conclude Aziz: «Il Pakistan è un Paese che sopprime le libertà fondamentali dei propri cittadini. Nel “libero” Kashmir non abbiamo alcuna libertà: non abbiamo libertà di parola, non abbiamo libertà di religione o libertà di coscienza». Le uniche libertà rimaste sono, a quanto pare, quella di morire o di scappare via.