Dasht-e-Barchi, quartiere di Kabul. Una scuola femminile frequentata da ragazze sciite, in un sobborgo ancora più affollato del solito a causa dello shopping in vista della conclusione del mese di Ramadan. Una serie di esplosioni, bombe piazzate per colpire a caso nella folla di civili in uno dei momenti di maggior passaggio. Sono morte in 85, oltre un centinaio quelle ferite. Tutte adolescenti. Gli attentati non sono ancora stati rivendicati. Fin qui la cronaca che segue, come gli attentati, un preciso copione: conto delle vittime, indignazione, dichiarazioni di politici, generali e presidenti, dichiarazioni dei talebani. Tempeste mediatiche. Per un paio di giorni e dopo cala il silenzio. Fino alla prossima volta. Perché le ragazze di Kabul non sono state le prime a morire e non saranno le ultime.
Nel solo mese di Ramadan, cominciato lo scorso 13 aprile, ci sono stati 15 attacchi suicidi e circa 200 attentati. Oltre 500 civili sono rimasti feriti, il bilancio dei morti supera quota 100. Per la fine del sacro mese, celebrato in Afghanistan ancora una volta con un bagno di sangue, i talebani e il Governo di Kabul hanno dichiarato un cessate il fuoco di tre giorni. Seguendo, ancora una volta, un copione ormai tristemente noto che, purtroppo, anche l’Occidente e gli inviati a negoziare la spettrale «pax talebana» recitano ormai a memoria. Tre giorni di tregua dopo un bagno di sangue, auspici perché la suddetta tregua diventi permanente, un bagno di sangue ancora più efferato. Senza nemmeno più la scusa, da parte dei talebani, della Jihad, la guerra contro gli invasori infedeli. A morire, difatti, sono ormai quasi solo civili, in gran parte donne e bambini, di nazionalità afgana. E non valgono nemmeno più i dotti distinguo tra sciiti e sunniti, perché le bombe distribuiscono in modo più o meno imparziale il loro carico di morte.
Questa volta almeno Zalmay Khalilzad, l’ineffabile artefice del cosiddetto «accordo di pace» tra Usa e talebani, ha avuto il buon gusto di tacere sui social media. È ormai chiaro a chiunque che non c’è alcun accordo ma soltanto un ritiro più o meno disonorevole da parte delle truppe occidentali. Sulle ragazze, sulle donne di Kabul, si gioca ormai da vent’anni una partita vergognosa. I diritti delle donne sono stati invocati da più parti quando si cercavano ragioni per rimanere in Afghanistan. Il diritto all’istruzione, al lavoro. Diritti che i talebani hanno accettato di sostenere, in sede di colloqui, purché «in accordo con la Sharia», la legge islamica. Legge che è soggetta a interpretazioni più o meno restrittive e che, quando i signori della morte erano al governo a Kabul, è stata adoperata per tenere le donne confinate a casa. Le vedove non avevano modo di procurarsi da mangiare per sfamare i loro figli, per le ragazze imparare a leggere e scrivere diventava una trasgressione pericolosa. Tutti lo sanno, ma conviene a tutti far finta di dimenticare. E non si tratta solo dei diritti delle donne, ma dei diritti dei cittadini afgani tutti. Le truppe americane tornano a casa l’11 settembre, uno sfregio simbolico alla memoria di coloro in nome dei quali questa lunghissima guerra è stata combattuta, alla memoria di chi ha perso la vita perché gli è stato detto che combatteva per quei morti, per la democrazia, per la pace.
Di questa cosiddetta «pace» sono stati i talebani a dettare le condizioni e Washington è stata costretta a rimangiarsi di fatto tutte le clausole poste all’inizio dei colloqui: la rescissione dei legami con Al Qaeda, una trattativa guidata dal Governo afgano. Il riconoscimento, da parte dei talebani, del suddetto Governo e del processo democratico faticosamente instaurato nel Paese. Risultato: i campi di addestramento congiunti tra talebani e gruppi jihadisti pakistani e tra talebani e Al Qaeda prosperano. Il vituperato Isis-K su cui i talebani buttano la colpa di ogni efferatezza è in realtà, secondo l’intelligence afgana e non solo, l’altra faccia della stessa medaglia, una medaglia coniata e gestita dal Governo e dall’esercito pakistano. Islamabad ha infatti gestito i colloqui di pace sostenendo il ritiro delle truppe americane non perché temessero ritorsioni da parte degli Usa ma perché è nell’interesse del Pakistan, e della Cina dietro il Pakistan, «avere a Kabul un Governo stabile». Stabile e favorevole ai generali pakistani, anti-indiano e anti-occidentale. Per ricominciare a giocare il famoso gioco di Pervez Musharraf, ex presidente del Pakistan, una partita truccata su due-tre tavoli in cui si prendono soldi dagli americani per sconfiggere i terroristi manovrati dai generali. In questo gioco ipocrita tutti fanno finta di dimenticare che Islamabad in Afghanistan non ha mai sostenuto un Governo democraticamente eletto ma sempre e soltanto i gruppi militanti: talebani, Haqqani, Isis-K, Al Qaeda.
Tutti fanno finta di non sapere che il 12 settembre prossimo di democrazia a Kabul non rimarrà nemmeno più il pallido fantasma conquistato in questi ultimi anni, che ragazze e donne dovranno tornare a nascondersi come se la loro stessa esistenza fosse un delitto. Fanno finta di non sapere che se ci sarà pace sarà quella dei cimiteri, la «pax talebana» sotto l’egida cinese. Beijing, che con i talebani ha dialogato più di una volta, vuole la pace. La pace dello Xinjiang, la pace che permette ai traffici di prosperare, di costruire muri e recinzioni di filo spinato per privare i cittadini dell’accesso all’acqua potabile, al cibo. La pace mantenuta col terrore.
Nel futuro di Kabul la pace del terrore
Le truppe occidentali si ritirano lasciando il Paese in mano ai fondamentalisti
/ 17.05.2021
di Francesca Marino
di Francesca Marino