Riassunto delle puntate precedenti, come in ogni serie che si rispetti: 14 mesi fa Imran Khan, allora premier del Pakistan, veniva sfiduciato dal Parlamento e mandato a casa. Al suo posto, un Governo di coalizione ad interim, che doveva in teoria indire le elezioni entro 90 giorni. Le elezioni sono state rimandate con vari pretesti, mentre Khan portava in piazza migliaia di persone e incolpava prima «un complotto» ai suoi danni gestito dalla CIA e poi i militari. Khan, che dai militari era stato messo al potere, aveva cominciato già da tempo un braccio di ferro con i vertici delle forze armate: in particolare con l’ex capo dell’esercito Bajwa e con l’attuale, il generale Munir, destituito dallo stesso Khan quando era a capo dei servizi segreti. Materia del contendere, pare, le accuse di corruzione nei confronti della first lady e della sua migliore amica e socia in affari, ma soprattutto essere colpevoli di osteggiare il processo democratico che porterebbe Khan all’ennesima vittoria alle urne. Intanto, nei confronti di quest’ultimo pendevano e pendono un centinaio di denunce, che spaziano dalla corruzione al terrorismo. Lui ha evitato la prigione per qualche mese portando migliaia di persone in piazza ogni volta che doveva comparire in tribunale. Fino a che, in maggio, viene arrestato per aver venduto, intascandone i proventi, i doni ricevuti nel suo ruolo di primo ministro e per aver favorito, dietro lauto compenso, un miliardario imprenditore indagato per riciclaggio dalle autorità britanniche.
Al suo arresto è seguito, il 9 maggio, un vergognoso quanto sanguinoso assalto dei suoi «pacifici» sostenitori a varie stazioni di polizia in tutto il Paese e anche al quartier generale dell’esercito a Rawalpindi. A Peshawar viene data alla fiamme la stazione di Radio Pakistan, a Lahore viene assaltata e saccheggiata la sede dei Corps Commander. D’altra parte già nei mesi scorsi stazioni di polizia e caserme erano state prese d’assalto dai seguaci di Khan che marciavano chiedendo un cambiamento «attraverso le urne o con un bagno di sangue». Il bagno di sangue non c’è stato, ma solo per caso. Otto morti e migliaia di arresti. Imran Khan è stato rilasciato dopo qualche giorno, la sua first lady è comparsa in tribunale nel suo solito bianco hijab integrale e ulteriormente protetta da bianchi lenzuoli dalla vista dei comuni mortali, per chiedere la cauzione per le accuse nei suoi confronti. In compenso la reazione dei militari non si è fatta attendere: migliaia di persone sono state arrestate per gli episodi di violenza in questione. Soprattutto sono stati arrestati tutti i vertici del partito di Khan, che a quanto pare vengono liberati soltanto dopo aver promesso di dare le dimissioni dal partito.
Khan e i suoi sostenitori cercano l’appoggio dei Governi occidentali gridando al complotto e all’attentato alla democrazia. Niente di più falso: non si tratta di una lotta per la democrazia né tantomeno dell’eroico Imran che, solo tra i politici pakistani, ha il coraggio di opporsi allo strapotere dell’esercito: l’ex premier ci ha tenuto più di una volta a precisare il suo profondo rispetto e il suo smisurato amore per l’istituzione tutta. Non si tratta di Khan contro i generali e i servizi segreti, ma di generali e servizi segreti contro i loro colleghi. La vera battaglia, difatti, si svolge tra due diverse fazioni dell’esercito, una più progressista e l’altra più conservatrice. E Imran gioca sul tavolo dei conservatori, ma la partita che sta giocando con esercito e servizi segreti, quegli stessi che lo hanno condotto quasi di forza al potere e che di fatto governano il Paese, è complessa e pericolosa. Soprattutto perché ha evidenziato una spaccatura all’interno delle monolitiche istituzioni. E i militari, in Pakistan, non detengono soltanto le armi ma anche e soprattutto il potere economico. Con un fatturato di 26,5 miliardi di dollari e tre milioni di persone a libro paga, l’esercito è difatti il gruppo industriale più grande del Pakistan. Ha interessi praticamente in ogni settore: produce, acciaio, mobili, beni di consumo, prodotti farmaceutici, alimentari, cereali, carni lavorate e molto altro.
È la più grande impresa di costruzioni del Paese, possiede miniere, cliniche e ospedali, scuole e università. È il più grande produttore di cemento e fertilizzanti del Pakistan, ha interessi sia nel settore pubblico che privato e, ciliegina sulla torta, i militari possiedono la Askari Bank, che è tra le prime cinque banche del Paese. La battaglia è ancora in corso, tra arresti di politici e roboanti dichiarazioni dell’esercito che ringrazia i pakistani per il loro «infinito» amore nei confronti dell’istituzione. In conclusione, comunque vada, a vincere saranno sempre e inevitabilmente loro: con un altro burattino «democraticamente» eletto, da rimandare a casa quando, come succede dalla fondazione del Paese, comincia a voler pensare con la propria testa. Si attendono le prossime puntate.