Nei guai anche Michel Temer

Brasile – Balzato sulla poltrona presidenziale sull’onda dell’indignazione popolare, ora il presidente rischia l’impeachment come Dilma Rousseff
/ 19.12.2016
di Angela Nocioni

Guai seri in vista per il presidente del Brasile, Michel Temer. La mannaia degli scandali giudiziari che fa fuori i politici in tv e sui giornali prima ancora che il processo sia celebrato, la stessa che ha decimato l’intera dirigenza politica del Pt, (partito dei lavoratori, la sinistra storica brasiliana) si rivolta ora contro Temer, che grazie a quella mannaia è arrivato alla presidenza in sostituzione della presidente eletta Dilma Rousseff, abbattuta da un processo di impeachment che proprio Temer, suo vice, aveva promosso.

Lui e alcuni alti dirigenti del suo partito (movimento democratico brasiliano, Pmdb) sono stati accusati di aver ricevuto tangenti e finanziamenti in nero per pagarsi le campagne elettorali. L’accusa per Temer è grossa. Melo Filho, direttore delle relazioni internazionali della impresa di costruzioni Odebrecht, una delle principali aziende brasiliane, ha dichiarato alla magistratura di essere stato presente a un incontro a tre tra lui, Temer e l’allora presidente dell’azienda, in cui Temer avrebbe chiesto l’equivalente di tre milioni di euro in moneta brasiliana in cambio di una serie di favori all’impresa. Per dar forza alla testimonianza il denunciante ha fornito una serie di dettagli sull’incontro, insieme a prove del suo lavoro di lobbista incaricato di oliare con denaro dell’impresa i buoni rapporti con deputati e senatori di vari partiti, soprattutto del Pmdb. Avrebbe fornito ai magistrati l’elenco delle cifre consegnate e i cognomi dei riceventi.

Temer ha detto che è una calunnia. Ma lo scandalo, anche se molto più sommessamente rispetto a quelli che negli ultimi anni hanno riguardato le accuse contro i politici del Pt, è già iniziato. E il confronto con ciò che ha portato alla fine del governo Rousseff è inevitabile.

Dilma non è mai stata accusata di aver intascato tangenti, né di aver mai avuto a che fare con fondi neri. Nessuna accusa diretta su di lei è mai stata non solo provata, ma neanche formulata. In un momento politicamente nero per il suo governo e per il Pt, è stata cacciata dalla presidenza attraverso un processo di impeachment in cui è stata accusata di aver commesso un piccolo reato amministrativo, non penale, una «pedalata fiscale». Di avere, cioè, compiuto un ritocco nel provvedimento fiscale di fine anno, di essere ricorsa a una banca pubblica per far prestare al governo l’equivalente di 27 mila milioni di euro senza passare per il voto parlamentare. 

Secondo l’accusa quei fondi non erano a disposizione dell’esecutivo che, scavalcando il Parlamento, se li procurò ritardando il pagamento a una banca pubblica. Dilma si è difesa dicendo che non solo quei soldi il governo li restituì tutti, ma che un ritardo nel pagamento non equivale a un prestito. Fatto sta che per la lettera della legge brasiliana qualsiasi atto compiuto contro «l’uso legale del denaro pubblico» è illegale, quindi tecnicamente era possibile, con un escamotage politicamente molto discutibile, trascinare Dilma all’impeachment.

È stato così che Temer, da vice, è balzato sulla poltrona della presidenza del Brasile sull’onda dell’indignazione popolare e ha varato un nuovo governo, con un indirizzo politico completamente opposto a quello di Dilma. Ed è qui che cominciano i guai seri per lui: procurarsi personalmente una tangente di tre milioni di euro, sempre che l’accusa sia provata (ma gli scandali mediatici vanno avanti anche senza prove) è un serio reato penale ed è un’accusa politicamente ben più grave che compiere una «pedalata fiscale». Anche se il suo partito, il Pmdb, della correttezza non ha mai fatto una bandiera. È un partito fondamentale nel gioco delle alleanze della politica brasiliana. Non presenta mai un candidato presidenziale e governa sempre.

Il Pmdb si allea con il Pt, la sinistra di Lula e Dilma, o con il Psdb, il partito di Fernando Enrique Cardoso, la destra liberal. Dipende da chi vince, l’ha sempre deciso dopo la proclamazione del risultato. Tranne alle ultime elezioni, quelle in cui Dilma è stata confermata alla presidenza per un soffio e ha accettato come vice Temer, che l’aveva sostenuta durante la campagna e l’ha impallinata appena ha potuto, forte non di un suo capitale politico personale (aveva il 12% del gradimento popolare secondo i sondaggi appena indossata la fascia presidenziale) ma di una situazione di stallo in cui l’unico potere istituzionale con appeal è quello giudiziario.

Ed è così che in Brasile sono ricominciate le manifestazioni di piazza al grido: fuori i ladri dal governo! Quelli che nel 2014 urlavano «Fora Dilma!», ora gridano «Fora Temer!» e «Fora Renan!» (Renan Calheiros, presidente del Senato, accusato di corruzione e pedina di Temer). I manifestanti acclamano lo stesso nome di allora: Sergio Moro, il giudice sceriffo che ha più volte detto di ispirarsi all’ex pm dell’inchiesta Mani Pulite nei primi anni Novanta, Antonio di Pietro. Moro è il pm d’assalto che ha riscosso politicamente il successo mediatico della Operazione Lava Jato, la mega inchiesta sui sovrapprezzi pagati a politici di tutti i partiti da tutte le imprese che hanno avuto appalti da Petrobras, l’azienda pubblica del petrolio.

Tutto ciò è avvenuto nel bel mezzo di una crisi economica che ha reso furiosi molti degli ex poveri (milioni di persone, il grande miracolo del Pt al governo) che si erano illusi, nell’era del boom economico lulista (2003-2010) di essere finalmente diventati parte dell’agognata classe media, di poter spendere, di poter comprare. «Io non volevo cambiare Dilma con un altro, un corrotto con un altro, io non volevo Temer. Elezioni, elezioni!» si sente gridare durante i cortei di protesta. «Sergio Moro pensaci tu».

A peggiorare il clima è stata la notizia dell’annacquamento, con una raffica di emendamenti, di un pacchetto di proposte di legge anticorruzione, chiesto dai pm più barricaderi e sostenuto da due milioni di firme. I critici della normativa bocciata dicono che leggi simili sono incompatibili con una democrazia che voglia tutelare anche in minima parte i diritti degli individui. Ma la notizia che un parlamento con decine di inquisiti abbia ammorbidito la legge del «tutti in galera» ha riportato comunque molte persone in piazza.

Chi sono? Molti sono ancora i delusi del miracolo lulista che non vogliono credere che l’epoca delle vacche grasse sia finita. Odiano con la veemenza degli illusi traditi. Sono gli stessi che tre anni fa chiedevano migliori servizi pubblici e opportunità per i giovani (il 25% dei brasiliani ha meno di 15 anni). Sono incattiviti dall’attesa vana di una svolta che non arriva. Sono in parte la nuova classe sociale creata dal primo decennio del primo governo di sinistra nella storia del Brasile. Sono quelli che si sono gonfiati di debiti, convinti dal buon vento spirato durante gli anni di Lula al governo che il boom fosse eterno.

Non vogliono comprensibilmente credere che quel miracolo fosse retto da una meravigliosa congiuntura fatta di prezzi altissimi nel mercato internazionale dell’agrobusiness combinata a una coraggiosa, ma costosissima, politica di ridistribuzione che non ha più i soldi per tenersi in piedi, né una leadership politica in grado di procurarseli. Anche perché quella che c’era è stata spedita in galera dalla stessa magistratura che ora viene invocata come forza salvifica.

Nessuno sembra ricordarsi che la cintura industriale di San Paolo, la gigantesca fabbrica di operai in cui è nato politicamente l’ex presidente Lula e che ha garantito un salario a milioni di persone, è da anni in fase di deindustrializzazione. Difficile che la faccia ripartire il giudice di prima istanza Sergio Moro.