Il 17 ottobre scorso il governo di Haydar al-Abadi ha annunciato l’avvio della battaglia per la riconquista di Mosul, la seconda città dell’Iraq nella provincia settentrionale di Ninive, caduta nelle mani dell’Isis il 10 giugno 2014. E proprio a Mosul Abu Bakr al-Baghdadi di lì a poco, il 29 giugno, proclamò la nascita del Califfato islamico. Nelle immagini trasmesse per l’occasione dalla televisione irachena il premier al-Abadi era letteralmente circondato da generali e colonnelli dall’espressione accigliata, che francamente parevano tenerlo in ostaggio. Un’inquadratura funerea quanto allarmante, che denunciava innanzitutto la debolezza politica di al-Abadi e in secondo luogo le tante colpe che l’esercito iracheno deve farsi perdonare. Colpe che spera di riscattare proprio con la riconquista di Mosul.
Nessuno nel Paese ha infatti dimenticato la sua débâcle di fronte agli «uomini neri» dell’Isis nel corso degli ultimi due anni; una ritirata ben poco gloriosa che ha aperto la strada non solo al Califfato ma alla miriade di attori locali, regionali e internazionali che oggi ufficialmente collaborano col governo di Baghdad nella lotta all’Isis, ma domani saranno altrettanto determinati a presentare il conto di quella collaborazione. Certo Mosul deve essere ancora riconquistata e – stando al Pentagono ci vorranno mesi per sloggiare dalla città i circa 5.000 miliziani del Califfato – ma già fin d’ora ci possiamo rendere conto di quale nodo gordiano rappresenti Mosul per il futuro dell’Iraq e dell’intera regione.
Innanzitutto la collaborazione tra i vari attori sul terreno va mantenuta costante per tutto il tempo che occorrerà a cacciare il Califfato dalla sua capitale irachena. Un compito assai arduo visto che i loro obiettivi reali sono spesso divergenti. Vediamo allora a cosa mirano e cosa temono questi «comprimari» in quella che dovrebbe essere la sconfitta strategicamente più importante inflitta all’Isis in tutta la sua storia.
Partiamo dai peshmerga, cioè i guerriglieri curdi che fino ad oggi hanno giocato il ruolo più attivo nell’assalto a Mosul, con la copertura aerea della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti. Continueranno senza dubbio a fungere da testa di ponte nella riconquista della seconda città dell’Iraq ma, quando dovesse cadere, non potranno figurare ufficialmente come i suoi «liberatori». Il peso politico e il grado di autonomia della componente curda nel fragile equilibrio del puzzle etnico-confessionale iracheno per il governo di al-Abadi è già troppo preponderante e soprattutto in Iraq tutti sanno che i curdi da decenni mirano a riavere il controllo di Mosul e dei suoi pozzi di petrolio, dopo che Saddam Hussein negli anni 70 e 80 del secolo scorso, li aveva cacciati da tutta l’area per sostituirli con arabi sunniti e turcomanni. Già ora comunque i peshmerga si lamentano della poca iniziativa mostrata dall’esercito iracheno nel riconquistare i villaggi che circondano Mosul e protestano per l’intervento – non richiesto da Baghdad e nemmeno dagli Stati Uniti – della Turchia nella battaglia in corso.
Dal canto suo Erdogan giustifica la sua «invasione» dell’Iraq innanzitutto come scudo protettivo nei confronti dei turcomanni presenti nell’area di Mosul e in secondo luogo come una più ampia strategia di messa in sicurezza dei confini settentrionali tanto della Siria quanto dell’Iraq per impedire all’Isis di minacciare il confine turco. Sarà sicuramente vero ma è altrettanto vero che vuole assolutamente impedire che i curdi iracheni diventino forti al punto da proclamare l’indipendenza del proprio territorio, cosa che avrebbe ripercussioni anche nel Kurdistan siriano e soprattutto in quello turco dove il presidentissimo ha ripreso la sua guerra all’ultimo sangue contro il Pkk (il Partito dei lavoratori curdi) nel Sud-Est del paese.
Altri che ufficialmente non potranno essere sul campo quando l’Isis verrà cacciato da Mosul sono i miliziani del Hachd Al-Chaabi, cioè della Mobilitazione popolare, un’organizzazione-ombrello di vari gruppi paramilitari sciiti che si sono creati a partire dal giugno 2014 espressamente per combattere l’Isis dietro l’invito-appello della massima autorità sciita dell’Iraq, l’ayatollah Ali al-Sistani. Teoricamente questi gruppi paramilitari dovrebbero far capo al primo ministro, ma non è un mistero per nessuno che vengano addestrati e armati dai Pasdaran (i Guardiani della rivoluzione) iraniani che peraltro giocano un ruolo di primo piano anche nell’addestramento dell’esercito e dei servizi di intelligence iracheni. Proprio gli uomini del Hachd Al-Chaabi si sono macchiati di atti di violenza inauditi contro i civili al momento della riconquista di città sunnite cadute sotto il controllo dell’Isis, come Falluja e Ramadi. Non meraviglia perciò che a vigilare sul terreno nella battaglia di Mosul ci siano anche gli «eserciti personali» di diversi sceicchi sunniti che vogliono proteggere i propri correligionari – già usati come scudi umani dal Califfato – nell’unica città in cui sono la maggioranza nel nord del Paese. Magari sono gli stessi sceicchi che hanno favorito la vittoria dell’Isis nel 2014, ma dopo averne sperimentato i metodi «di governo», oggi preferiscono rischierarsi con Baghdad.
Baghdad: il nodo rimane la capitale o meglio gli equilibri etnico-confessionali all’interno del parlamento e del governo iracheni. È vero che l’attuale premier al-Abadi, a differenza del precedente Nuri al-Maliki – sta garantendo ai sunniti (con il controllo Usa) un più equo power sharing, ma – una volta cacciato l’Isis da Mosul – la maggioranza sciita del parlamento e del governo come intenderà governare la città, con quali equilibri di forze, forze a loro volta sponsorizzate da quali potenze regionali e internazionali?
E poi cacciare l’Isis da Mosul non significa sconfiggerlo una volta per tutte. Si teme che i suoi miliziani si riversino nella già martoriata Siria, che i foreign fighters facciano ritorno a casa a seminare morte. Si teme, in tutti i casi, un’immane catastrofe umanitaria.