Mosul, battaglia a suon di bombe

Iraq 2. parte - La riconquista della seconda città del Paese da parte delle truppe governative prosegue a rilento, la città sembra ormai il set di un film catastrofico in cui i civili pagano il prezzo più alto
/ 03.04.2017
di Daniele Raineri

La luce colpisce radente la collina poco a sud  di Mosul. I corpi sono posati in fila e avvolti nelle coperte, per alcuni ci sono dei fogli di carta tenuti fermi con le pietre, indicano i nomi, ma non tutti i corpi hanno il foglietto accanto. «Sono diciotto, anzi diciannove perché un cadavere è di una donna incinta, vale per due vite», ci dice un uomo che aiuta nella sepoltura. «Appartenevano tutti alla stessa famiglia, sono morti di colpo a Mosul per un’esplosione». Colpiti dai jet americani che bombardano la città oppure dallo Stato islamico, chiediamo. «Non si sa, non si è capito, Daesh mette trappole esplosive ovunque, gli aerei bombardano i guerriglieri che si nascondono fra le case, alla fine ci sono così tante esplosioni che non sappiamo chi è stato a ucciderli». Alza il lembo di una coperta, sotto c’è una bambina con i capelli riccioli, non avrà più di otto anni, è tutta annerita, «vedete, i corpi portano i segni dello scoppio». Un bulldozer apre e allarga una fenditura nel terreno, quando arriva a un metro di profondità gli uomini sollevano le coperte con dentro i corpi e le adagiano in fila sul fondo della fossa comune. Poi sopra mettono un telo di plastica in modo che quando la terra cadrà nella fossa non colpirà direttamente i morti. Un uomo con la mascherina di garza sulla bocca e un paio di soldati con i fucili guardano le operazioni.

C’è stato un tempo recentissimo in cui questa zona era un feudo dello Stato islamico ma ora la battaglia infuria dentro Mosul, i guerriglieri islamisti sono occupati qualche chilometro più in là.

Di solito le fosse comuni le scavano (o le fanno scavare) i carnefici per sbarazzarsi delle vittime. Poco distante da qui ne hanno trovato una dello Stato islamico che contiene più di duecento corpi, erano di ex poliziotti, di ex soldati e delle loro famiglie, avevano accettato il dominio islamista e avevano fatto buon viso a cattivo gioco per due anni e mezzo – a partire dal giugno 2014, che qui in Iraq ha segnato il dilagare dello Stato islamico in un terzo del paese come un’esondazione. La loro docilità non è servita a nulla, gli estremisti li hanno trucidati lo stesso prima di ritirarsi perché non volevano che quelli facessero da pionieri per il governo iracheno che ora torna in queste zone. Senza di loro, senza gli uomini massacrati, quest’area resterà debole e vulnerabile e per lo Stato islamico sarà molto più facile fra qualche mese infiltrarsi di nuovo. Di solito, si diceva, sono i carnefici ad avere il problema dei cadaveri, ma questa sulla collina è una fossa comune scavata da mani amiche perché a volte i morti sono così numerosi che non c’è altra possibilità di sistemarli. 

Se si volge lo sguardo, poco lontano e in basso sulla strada principale ci sono i checkpoint dei soldati iracheni che sorvegliano i veicoli in uscita da Mosul e sopra le loro teste sventolano i vessilli sciiti, soprattutto quello verde con la faccia altera di Ali – così detestata dallo Stato islamico. Il ritorno del «Califfato» proclamato nel 2014 da Abu Bakr al Baghdadi con indosso la veste nera dei Califfi della dinastia Abbaside avrebbe dovuto proteggere la comunità sunnita irachena dalle minacce esterne – almeno così dicevano gli estremisti nei loro video e nella loro propaganda. Ecco invece che cosa ha portato: fosse comuni per seppellire in massa la gente del posto e i suoi figli piccoli. E dappertutto l’esercito governativo con le bandiere sciite issate, per proclamare nel modo più chiaro possibile la disfatta del Califfo e il trionfo dei suoi nemici. Non c’è traccia della gloria, della prosperità economica, della cultura e della fama globali che molti secoli fa caratterizzarono il Califfato degli Abbasidi, quando la città di Baghdad fu un faro per il mondo dell’epoca. E pensare che in teoria chi occupa il posto di «Califfo» avrebbe tra i suoi compiti anche la tutela di tutti i musulmani del mondo. Questo, s’intende, a voler prendere per buona la versione dei baghdadisti, ovvero che al Baghdadi è davvero un Califfo, ma come è noto questa versione è contestata con tutte le forze dalla maggioranza dei musulmani. Qui appena fuori Mosul, dove il bulldozer sta coprendo i poveri resti dei morti, si vede bene come è finita: il Califfato dei fanatici ha portato soltanto una guerra disastrosa sulle teste della stessa gente che pretendeva di difendere.

Nella vicina Siria l’avvento dei baghdadisti ha trasformato la rivoluzione del 2011 contro l’esercito di Bashar al Assad in un bagno di sangue senza senso, in cui sono finiti dentro tutti, civili, soldati, governo, ribelli e anche alcuni giornalisti. Soprattutto c’è finita la maggioranza sunnita del paese, che ha dovuto abbandonare ogni speranza di un futuro pacifico. Oggi è stretta tra gli estremisti e il governo di Damasco, senza una soluzione in vista. Nel nord dell’Iraq che include Mosul lo scenario è più lineare, ma anche lì i sunniti si domandano: cosa resta di questi quasi tre anni di utopia ultraislamista a Mosul? I fanatici ci trattavano come collaborazionisti del governo e i soldati ci trattavano come complici dei terroristi.

Rientriamo a Mosul ovest, dove c’è la prima linea dei combattimenti, grazie all’unica strada che arriva a quel settore della città da quando i cinque ponti che lo univano a Mosul est sono stati distrutti dai bombardamenti. La strada taglia attraverso l’aeroporto – tutto bucherellato da fossati che gli islamisti hanno scavato prima di ritirarsi in modo da rendere inservibili le piste – e poi per un tratto sterrato così stretto che ci passa soltanto un mezzo blindato per volta. Ha appena piovuto, è così allagata che in certi punti sembra un guado, ma è comunque il passaggio che collega il fronte e mezzo milione di civili al resto del mondo. La città è come il set di un film catastrofico un po’ eccessivo, muri crivellati di proiettili, montagne di detriti, i pochi pali della luce ancora in piedi sono sghembi. Da vicoli laterali spuntano civili a due-tre per volta dietro una bandiera bianca.

Arriviamo vicino alla sagoma lunga di un hotel che pochi giorni prima è stato bombardato dai jet americani perché lo Stato islamico lo aveva trasformato in una base operativa, si può vedere il video dell’operazione sul sito del Pentagono: le bombe non lo hanno raso al suolo, sono penetrate dentro e sono esplose dall’interno, ma la struttura è ancora in piedi. I guerriglieri capiscono che ora dietro l’hotel devastato si stanno ammassando carri armati e truppe irachene, lanciano tre razzi che piovono in sequenza e feriscono in modo grave un soldato, un razzo esplode all’angolo del palazzo vicino e apre una voragine nella facciata all’altezza del quarto piano.

È il botta e risposta tipico dell’operazione dentro Mosul. Un palazzo che ieri gli aerei centravano con le bombe oggi diventa la base operativa dei soldati che avanzano ed è di nuovo bombardato, questa volta però dagli occupanti di prima. Nello stesso punto dove sono caduti i razzi, il giorno dopo lo Stato islamico manda un camion bomba – anzi è un bulldozer bomba, una ruspa che riesce a spostare le auto dei civili che i soldati mettono di traverso nelle strade per bloccarle (e così non farsi prendere di sorpresa alle spalle mentre avanzano). La ruspa arriva vicino ai soldati, s’infila fra i veicoli blindati perché cerca di fare il maggior danno possibile ed esplode. Ci sono un paio di giornalisti inglesi chiusi in un mezzo vicino, ma sono fuori dal raggio dello scoppio e non si fanno nulla. Un fotografo francese poco più avanti si gira in tempo e scatta una foto bella della palla di fuoco che si alza sopra il profilo dell’hotel, prima distrutto dagli americani e ora diventato il bersaglio di razzi e dei guidatori suicidi dello Stato islamico. Viene in mente l’incertezza dell’uomo incontrato alla fossa comune, che aveva rinunciato a sapere di chi fosse la colpa dell’esplosione che aveva ucciso le diciotto persone davanti a sé.