Moon Jae-in: presidente di «tutti i coreani»

Seul – Proviene da una famiglia dalla Corea del Nord, ha combattuto la dittatura militare
/ 15.05.2017
di Beniamino Natale

La tensione con il vicino del nord sarà solo uno dei problemi che il nuovo presidente sudcoreano Moon Jae-in si troverà ad affrontare nei prossimi mesi e anni. Ex-leader della rivolta studentesca contro la dittatura militare e poi avvocato impegnato nella difesa dei diritti umani, Moon è entrato in politica tardivamente, quando è morto il suo amico e mentore politico, l’ex-presidente Rooh Moo-hyun, che si è suicidato nel 2009 dopo essere stato accusato di corruzione. Di Rooh è stato un ascoltato consigliere e tutto lascia prevedere che cercherà di far rivivere la cosiddetta «sunshine policy» verso la Corea del Nord, cioè il riconoscimento del regime di Pyongyang e la pacifica coesistenza in cambio della rinuncia da parte del dittatore nordcoreano Kim Jong-un al suo programma nucleare.

L’ostacolo più imponente per il rilancio di quella politica – fallita quando, nel 2006, Pyongyang effettuò il suo primo test nucleare – è proprio Kim. Gli osservatori sono infatti unanimi nel ritenere difficilissimo se non impossibile che il dittatore rinunci al suo arsenale atomico. Dopo quello del 2006 la Corea del Nord ha infatti condotto altri quattro test atomici, tre dei quali da quando il giovane Kim (ha circa 33 anni) è al potere. L’arsenale atomico è diventato per il dittatore il principale strumento per tenere unito il gruppo dirigente nordcoreano e oggi il disarmo nucleare è molto più problematico di quanto fosse fino al 2011, quando il Paese era nelle mani di suo padre Kim Jong-il. Questo non impedirà a Moon di giocare la carta della distensione, una mossa che sarà sostenuta anche da Pechino, che sta cercando di rilanciare i colloqui di pace bloccati ormai da otto anni.

Il nuovo leader sudcoreano dovrà anche vedersela col presidente americano Donald Trump, che fino a questo momento ha scelto la «linea dura» verso Pyongyang. In un colloquio telefonico svoltosi subito dopo le elezioni, Trump e Moon si sono reciprocamente impegnati a «collaborare strettamente» di fronte «alle minacce nordcoreane». Muovendosi tra i due fuochi di Pechino e di Washington, Moon dovrà anche dire una parola definitiva sul Terminal High Altitude Aerea Defense (THAAD), il sofisticato sistema antimissilistico americano che è stato schierato in tutta fretta nelle settimane che hanno preceduto le elezioni presidenziali. Pechino, che teme possa essere usato per contenere le sue ambizioni regionali, vorrebbe che fosse eliminato, mentre Trump e i militari americani lo considerano parte essenziale della loro strategia anti-Corea del Nord.

Dopo aver vinto le elezioni con un largo margine (oltre il 40%), Moon ha affermato di voler essere il presidente di «tutti i coreani» e ha parlato di rilancio dell’economia senza accennare al THAAD. Nel corso della campagna elettorale ha criticato la presidente che l’ha preceduto Park Geun-hye (attualmente in prigione per corruzione), accusandola di aver acconsentito all’installazione del sistema senza consultare i cittadini.

Sarebbe però un errore ritenere che le relazioni con la Corea del Nord siano la principale preoccupazione dei cittadini sudcoreani. In un sondaggio condotto poco prima del voto, solo il 23% degli elettori ha indicato «la situazione internazionale» come la loro preoccupazione principale. Per la maggioranza, i timori riguardano l’economia, che ristagna, e la disoccupazione, che è arrivata all’11,3% secondo le statistiche ufficiali.

Moon proviene da un famiglia di profughi dalla Corea del Nord (è nato nel 1953, poco dopo che i suoi genitori avevano raggiunto il sud) e una parte della sua famiglia è rimasta al nord. Non sorprende che i rapporti con Pyongyang occupino un posto importante nel suo programma. Ma per i giovani nati dopo la fine della guerra, la Corea del Nord è un paese incomprensibile e sono preoccupati prima di tutto per l’economia e per il persistere di una struttura sociale in larga parte paternalista e feudale. Espressione economica di questa arretratezza è il potere che tuttora detengono le «chaebol», le grandi conglomerate familiari, la cui struttura e filosofia impediscono l’emergere di nuovi talenti. Moon ha promesso nel corso della campagna elettorale una politica espansiva, che dovrebbe creare circa 800mila nuovi posti di lavoro nel settore pubblico, e una profonda riforma delle «chaebol».

La riforma, come ha dichiarato l’economista Olivier Salomon al settimanale «Nikkei», dovrebbe «incoraggiare un rafforzamento della “corporate governance” e della competizione» e «una migliore allocazione delle risorse che promuova l’efficienza e che funga da catalizzatore per una crescita della competitività sul lungo periodo». La vecchia struttura economica ha portato ad un mercato del lavoro spaccato in due, tra i pochi privilegiati che hanno un posto di lavoro garantito e i nuovi arrivati sul mercato, la cui posizione è sempre più debole e che sono buona parte dell’elettorato di Moon.