Come osservato dallo psicoterapeuta, il dottor P., uno dei tanti medici chiamati a indagare tra carceri e comunità, la mente e i comportamenti del trapper italo-marocchino Baby Gang, il paziente, «ha la necessità di interpretare al meglio il proprio personaggio». E qui si ripropone il tema, un tema classico nella criminologia, e un tema eterno, nonostante la giovane età, nell’esistenza del diretto interessato, ovvero Zaccaria Mouhib, questo il nome all’anagrafe, 22 anni: ma non sarà prigioniero del proprio personaggio? Di Baby Gang s’è detto, dicono e diranno che trattasi d’un predestinato. Nel senso delle doti artistiche: basta una rapida incursione sulla piattaforma online Spotify e leggerete numeri di canzoni scaricate in quantità superiori a potenti rockstar internazionali. Dopodiché lui, Zaccaria, venerato dai ragazzini sia delle periferie sia del centro storico che lo difendono a oltranza litigando con i genitori, in un approccio istantaneo – banale? – rimanda immagini di sé perfino stereotipate, prevedibili: e le sigarette fumate senza sosta, e i tatuaggi che replicano scritte quali ACAB, acronimo inglese che sta per tutti gli sbirri son dei bastardi, e i vestiti iper-griffati compreso l’intimo, e la ripetizione di frasi che beatificano la vita in galera ché là fuori, anzi qui fuori, fa tutto schifo e siamo tutti dei colossali sfigati.
Baby Gang è figlio del Marocco. Il Marocco in una sua versione – nessuno s’offenda – europea, contemporanea, finanche laica. Il Marocco intenso, complicato da decifrare, degli immigrati. Di genitori che piangono all’idea della lontananza e dei loro figli che non vorrebbero andare in Nordafrica nemmeno per un’ora. O meglio, con Zaccaria era successo così. Mamma e papà s’erano mollati quand’era piccolo; il papà era rimpatriato; siccome Baby Gang aveva deragliato presto – da adolescente il primo ingresso in un carcere – la mamma aveva pensato, fra le misure estreme, d’accompagnare il ragazzo in Marocco, consegnarlo a suo padre, e che se la vedesse un po’. Maschio con maschio, ora incontrerai i veri disgraziati, terapia choc.
L’uomo viveva in una favela di Casablanca, sulla quale conviene una parentesi. Le strade lungo l’oceano sono una chilometrica sequenza di cantieri di palazzine in stile occidentale – pare Milano, pare Lugano – con le recinzioni zeppe di manifesti pubblicitari che raffigurano famiglie di quattro persone, il padre, bianco, giovane e bello, in gessato, che rincasa per il running in spiaggia, la madre, bianca, giovanissima, bellissima, in tailleur, che rincasa per lo yoga in spiaggia, e i bambini, bianchi, biondi, più che bellissimi, che sorridono in spiaggia godendosi ogni attimo, beninteso dopo aver completato con gioia i compiti che genereranno superlativi voti. Ebbene, nel nostro recente viaggio in Marocco, a Casablanca ci eravamo infilati in una strada sterrata, attirati, sullo sfondo, dalla presenza di baracche; d’improvviso erano sbucati dei ragazzi; impugnavano delle mazze da baseball, parlavano in arabo ma non era occorso un traduttore per capire che quella fosse terra loro e dovevamo sparire.
Lì dove i cantieri terminano, dovendo per forza prima o poi terminare, rimangono dei piccoli agglomerati, abitazioni che sembrano tenute insieme con lo sputo, un ammasso di materiali diversi da discarica, tetti di lamiere ondulate, e intorno pezzi di campi con l’erbaccia, le capre, branchi di ossuti cani randagi. Siccome la speculazione vince sempre e dietro questi quartieri vi sono interessi enormi, con finanziamenti stranieri, l’azzeramento d’ogni baraccopoli è segnato. Con lo sfratto ai residenti. Per andar dove? Boh, affari loro. Ecco, in quel suo trasferimento dal papà, Baby Gang da Calolziocorte, Baby Gang che, è vero, nel Lecchese abitava in un appartamento affollato di parenti vicini e lontani, nessuno dei quali aveva un soldo, e insomma si faceva la fame e in tanti, Baby Gang nella favela marocchina non voleva starci. Gli faceva schifo. Troppa povertà estrema, lui che comunque la povertà l’ha avuta addosso a lungo.
Se alla fine noi siam quello che siamo stati da piccoli, per dirla con un sacerdote vicino a Zaccaria, don Claudio Burgio, per alcuni un missionario metropolitano, per altri un idealista senza speranza, provate voi a iniziare le elementari senza scarpe ma in ciabatte, o senza quaderni, senza manco un foglio bianco. E per di più, anzi a monte, italiano sì ma, specie in provincia, comunque marocchino, quindi «negro», inutile girarci intorno: sarebbe una presa in giro. Quanto già ha vissuto, Zaccaria. E come. Furti, rapine, risse, armi, arresti, interrogatori, pernottamenti da barbone, le leggi nude e crude della strada.
Ma chi è questo ragazzo? Sul serio, chi è? Dal testo della canzone Cella 4: «Quindi morirò da ricco, la scena a novanta. Come un vecchio sceicco, solo senza barba». Dal testo della canzone Come te: «Arriva fino a me. Amico son come te. Je suis maghrebi ma cresciuto in Italia». Dal testo della canzone Mentalité: «Cresciuti in fretta perché qua non c’è chi ti aspetta e ti porta con sé. Vivo la vie, vivo la vie fin quando, mon frère, morirò da rich, morirò in street».
Come osservato dalla psicoterapeuta, la dottoressa G., parimenti uno dei tanti medici chiamati nel tempo a indagare tra carceri e comunità la mente e i comportamenti del trapper Baby Gang: «Sembra avere la necessità di avere al proprio fianco figure adulte che rassomiglino a un padre, ma che non si pongano nei suoi confronti in modo autoritario ma autorevole». Adesso, di questi tempi, Zaccaria Mouhib è in comunità. Di nuovo. Poi, chissà. Baby Gang ci riguarda da vicino, molto da vicino. Ascoltarlo è un esercizio di comprensione della realtà. A patto che cominci lui per primo. Sempre la dottoressa G.: «Ha bisogno di mettersi alla prova in modo introspettivo».
Abbiamo seguito l’ultimo anno di vicende criminali di Zaccaria. Con interesse. Con la necessità di studiare, studiarlo. Non è fascinazione del male, ma il suo esatto opposto, e vorremmo scrivere che per un genitore sia quasi un atto dovuto interessarsi a Baby Gang. Riprendendo una frase di don Gino Rigoldi, figura d’eccellenza nell’interpretazione della società, se a un naufrago ne accosti un altro, loro due si abbracceranno, in mare aperto, proveranno a stare a galla insieme, a salvarsi. Ma finiranno inesorabilmente per annegare.
(3. puntata; la prima puntata, Giovani analfabeti e disposti a tutto per denaro, è apparsa sull’edizione del 17 giugno; la seconda, Alle origini dei legionari della droga, su «Azione» del 24 giugno).