Il 2023 sarà probabilmente un anno di grandi migrazioni verso l’Europa. Concorrono verso questo scenario fattori diversi. Primo: la guerra in Ucraina continuerà ancora a lungo e provocherà nuovi flussi di persone in fuga verso la Polonia e di lì verso i Paesi dell’Europa centrale e occidentale. Intendiamo molti milioni di ucraini che non potendo abitare il loro Paese distrutto dai russi cercheranno sistemazione altrove. Sotto questo profilo alcuni Paesi europei hanno una capacità di accoglienza superiore per prossimità, vedi Polonia, o per quantità di popolazione ucraina da tempo residente, vedi Italia.
Secondo: le crisi e le guerre africane sono in via di intensificazione. La mobilità interna ed esterna al continente africano aumenta di anno in anno. In particolare va osservato il fronte dell’Africa settentrionale dalla costa mediterranea alle profondità saheliane. Il primo e più evidente punto di fragilità sta nella disintegrazione dello Stato libico. Al suo posto, milizie in permanente competizione armata, turchi ormai incardinati a Tripoli e dintorni, russi (della Wagner) in Cirenaica. Non è concepibile restaurare una qualche forma di Stato libico unitario. L’Italia e altri Paesi europei hanno cercato di surrogare la mancanza di un potere centrale negoziando a suon di dollari (o euro) con i capi delle milizie e delle tribù locali. Ma i boss locali si affittano, non si vendono. Incassato, pongasi, un milione da Roma, si offrono a Parigi per due, e viceversa.
Peraltro nelle Libie si osserva solo la schiuma di questo tragico fenomeno. Le radici dei flussi sono molto più profonde e originano nel Sahel e anche nell’Asia centro-meridionale. Un’area di particolare fragilità geopolitica è il Corno d’Africa, anche se in queste settimane qualche spiraglio di pacificazione in Etiopia si comincia a intravedere. Ma qui non sono tanto le guerre quanto le devastazioni ambientali e le crisi alimentari a determinare la fuga dai territori ancestrali.
Il caso più eclatante sotto il profilo ambientale è sul fronte occidentale dell’Africa, in particolare attorno a quello che una volta era il Lago Ciad. Un lago talmente profondo e vasto da parere un mare alle avanguardie dell’esercito romano che vi si spinsero più di duemila anni fa. Oggi è una pozzanghera. O poco più. Nulla da pescare, pochissimo per coltivare. Questo significa una crisi alimentare, ambientale e socioeconomica. Di cui profittano gruppi jihadisti, innalzanti la bandiera nera del profeta, che spadroneggiano in pseudo-Stati o Stati molto fragili come il Burkina Faso o lo stesso colosso nigeriano.
Che l’origine sia il Corno d’Africa o il Golfo di Guinea, le correnti migratorie che puntano verso il Mediterraneo tendono a convergere verso il Niger, lungo carovaniere e piste plurisecolari, punteggiate da pozzi e rare oasi. Il Niger, a suo tempo epicentro dell’impero francese d’Africa, ne è tutt’ora sua parte informale, oltre che un’area geopolitica di rilievo globale. Non fosse che per le sue enormi riserve di uranio che oltre ad alimentare le centrali nucleari francesi rappresentano il 60% di quel micidiale minerale bianco argento disponibile nel pianeta. Nel cuore del Niger, la città di Agadez è il crocevia delle rotte provenienti dall’Africa orientale, occidentale e meridionale. Di qui i passatori favoriscono a caro prezzo la traversata del deserto dei migranti diretti verso le coste libiche. E dalla «quarta sponda» comincia l’avventura verso l’Europa, di cui l’Italia è pontile affacciato sul Mediterraneo, quasi a toccare le coste africane.
Siamo pronti ad affrontare questa emergenza senza isterismi e senza negligenze? Probabilmente no. L’impatto dei migranti su un continente che sta subendo le conseguenze non solo economiche ma soprattutto psicologiche e culturali della guerra in Ucraina sarà molto più incisivo di quanto accadde negli anni passati. Soprattutto conseguenza generale del conflitto ucraino è la tendenza a perdere di vista gli interessi comuni e a mettere l’accento sui propri. Anche contro gli interessi e le intenzioni dei vicini. Sotto questo profilo l’Italia è uno Stato decisivo, perché dal punto di vista dei Paesi situati oltre le Alpi deve assorbire la maggior parte dei migranti. Ciò che non avviene, come sanno bene ad esempio gli svizzeri, che non brillano per controllo delle proprie frontiere con l’Italia, né tantomeno con la Germania. Si parla spesso di una politica migratoria europea. Ma senza coinvolgere Berna e i Cantoni di frontiera questa chiacchiera, già abbastanza vuota, è insensata.