«Mi sento un ebreo protestante»

Israele - Intervista a Avraham Burg, già direttore dell’Agenzia Ebraica, fautore di uno Stato aperto e tollerante verso ogni popolo e religione
/ 07.11.2022
di Sarah Parenzo

Il primo novembre gli israeliani sono stati chiamati alle urne per la quinta volta in quattro anni. Le elezioni si sono concluse con una vittoria schiacciante della coalizione di destra guidata dall’ex premier Benjamin Netanyahu e con il fallimento totale della sinistra. Particolare preoccupazione suscita la legittimazione popolare ottenuta dal partito sionista religioso di estrema destra che si è conquistato il terzo posto, mentre partiti di sinistra come Meretz e Balad, giovedì mattina non avevano ancora superato la soglia di sbarramento.

È ancora possibile essere ottimisti sul futuro di Israele? Ne parliamo con Avraham Burg all’Istituto Van Leer di Gerusalemme.

Nato nel 1955 in una famiglia aristocratica vicina al movimento religioso sionista, Burg ha iniziato la propria carriera politica negli anni '80 tra le varie come consigliere del Primo Ministro Shimon Peres, prima di venire eletto alla Knesset nelle liste del Partito Laburista. Nel 1995 ha preso le redini dell'Agenzia Ebraica, l'organizzazione sionista responsabile dell'immigrazione ebraica in Israele, poi è tornato in Parlamento, di cui è stato presidente dal 1999 al 2003. In questa veste, nel 2000, ha ricoperto anche la carica di presidente ad interim dello Stato.

Lei proviene da una famiglia molto nota, è da sempre attivo in politica e ha ricoperto cariche prestigiose. Tuttavia le sue posizioni di oggi si discostano molto da quelle dell’ambiente in cui è cresciuto e si è formato. Che cosa ha contribuito al cambiamento e quali tappe hanno segnato il suo lungo percorso?
Sono nato qui, nel quartiere più privilegiato di Israele, in una famiglia per metà di origine tedesca e per metà originaria di Hebron in Palestina. Non lontano da questo edificio c’era il campo da calcio di quando eravamo bambini.

Prima del ‘67 Gerusalemme era una città molto interessante dove si respiravano pluralismo e universalismo: camminando per le strade incontravi intellettuali del calibro di Martin Buber, Yaakov Yehoshua (il padre di Avraham B. Yehoshua), il premio nobel per la letteratura S. Y. Agnon o lo studioso Joseph Klausner (lo zio di Amos Oz).

Dopo la guerra dei Sei Giorni ci siamo ritrovati con un’infinità di luoghi santi di tutte le fedi, e anche quelle figure emblematiche per la realtà ebraica sono andate lentamente scomparendo dal panorama. In qualche modo il cambiamento di Gerusalemme, una città sempre più omogenea e meno tollerante, rispecchia quello di tutto il paese, da allora sempre più chiuso, conservatore, ebraico, religioso, fondamentalista, nazionalista e colonialista.

Spesso mi vengono poste domande sulla metamorfosi che ho subito dal momento che, cresciuto in una casa sionista religiosa del main stream israeliano, oggi mi ritrovo politicamente in una posizione completamente diversa. La verità è che io non sono cambiato per nulla, né mi sono spostato di un millimetro da quelle che erano le mie opinioni all’inizio degli anni ’80, quando mi ero accostato ad un movimento di soldati che si opponevano alla Prima Guerra del Libano. È trascorso moltissimo tempo e tante cose sono successe, ma io perseguo sempre i medesimi due obiettivi: mettere fine all’occupazione e dividere Stato e nazione, posizioni ereditate dal mio maestro, il prof. Yeshayahu Leibowitz.

Quando intervisto le persone, fanno tutte riferimento al ‘67 come ad un punto di svolta critico per le coscienze. Davvero prima non avete percepito niente di “anomalo”?
Se lo chiedi a me il risveglio vero e proprio delle coscienze politiche nella forma attuale risale a tempi molto più recenti, intorno all’inizio del 2000. Prima eravamo impegnati ad agire: il susseguirsi dell’eccitazione per la fondazione dello Stato, l’arrivo dei superstiti della Shoah con il numero tatuato, il ritorno dei prigionieri, le grandi guerre e i cambiamenti demografici dovuti alle immigrazioni di massa non ci davano nemmeno il tempo di pensare. Persino rispetto alla regione la percezione era positiva, i sette eserciti che avevano combattuto contro di noi nel ’48, già nel ‘73 si erano ridotti a due e, negli anni ’90, al tempo degli Accordi di Oslo, l’atmosfera era di speranza e ottimismo anche rispetto alla questione palestinese. Poi all’inizio del Duemila improvvisamente qualcosa di complesso è avvenuto a livello mondiale che si è riflesso su di noi. In generale la mia teoria è che tutto quello che avviene qui in micro si è rivelato altrove in macro. Posso fornirti molti esempi anche per il secolo scorso, fatto sta che dopo gli attentati alle Torri Gemelle, a Madrid, a Tokio e a Londra, Barak è rientrato da Camp David con la percezione di aver perso un partner palestinese e la grammatica interiore si è spostata da sentimenti di fiducia e speranza a emozioni traumatiche. L’unica differenza tra la disperazione americana e quella israeliana è che qui tutto si gioca in soli 23000 km chilometri quadrati e le due comunità che vivono insieme in uno spazio così ristretto finiscono per soffocare.

Come definirebbe la sua appartenenza all’ebraismo oggi? In cosa si identifica?
Io sono un ebreo per caso perché lo spermatozoo di mio padre ha incontrato l’ovulo di mia madre a Gerusalemme. Se fossi stato figlio del Dalai Lama, ti assicuro che l’ottavo giorno non mi sarei fatto circoncidere, nè, se fossi nato dal Papa, a 13 anni mi sarei offerto di indossare i tefillìn (i filatteri per la cerimonia della maggior età religiosa). L’ebraismo è la cultura nella quale sono nato, scrivo nella sua lingua, conosco una parte delle sue fonti, è la mia culla e il mio laboratorio. Tuttavia, così come sono contrario al monopolio commerciale, lo sono anche a quello delle religioni e in questo affare di un Dio che dice di essere l’unico, non ci sto. Io sono favorevole al pluralismo più completo. L’intero monoteismo è un grosso fallimento, non so se abbia ucciso di più l’amore per Dio o la scienza, ma entrambi sono molto distruttivi. Inoltre io non mi sento automaticamente della stessa patria di un ebreo solo perchè come me è nato da madre ebrea, bensì di chi ha il mio stesso sistema di valori e le mie stesse opinioni. Può essere palestinese, musulmano, cristiano, israeliano, americano o italiano. Per il resto tutto ciò che è universale nell’ebraismo non lo considero estraneo, ma mi oppongo al particolarismo. Quando mi chiedono se sono un ebreo ortodosso, laico, riformato o conservativo rispondo di essere un ebreo protestante! Solo io posso definire me stesso e non m’importa cosa pensano gli altri. Il testo è sotto la mia responsabilità, sono l’unico interprete e non ho bisogno della mediazione di una chiesa con due papi, uno ashkenazita e l’altro sefardita, sono autonomo.

Nella storia ebraica ci sono stati meravigliosi momenti iconici di vita mitologica e altri orribili. Se già il treno deve andare a ritroso io preferisco scendere dove c’era luce. Ci sono quelli che scelgono di fermarsi alla stazione di Giosuè per sterminare popoli, mentre io voglio scendere a quella di Abramo e potermi sposare con le donne locali. Anche il movimento sionista, come tra l’altro molti altri movimenti nazionalisti, è un treno che viaggia a ritroso: torna indietro ai territori del passato, ai nomi, alla lingua, ai testi. Ma secondo me ci sono aspetti su cui non si può transigere: la pace, la vita umana, la conservazione del pianeta, la responsabilità che ci è stata data nei confronti della creazione devono essere qualcosa di sacro, un «must». Ciascuno deve usare gli strumenti soggettivi che possiede per il bene del mondo, contribuendo a questo caleidoscopio con la cultura che ha ricevuto, come ebreo per caso, come buddista per caso, come musulmano accidentale.

Lei si è distinto per originalità anche sulla questione della nazionalità in seguito alla promulgazione della legge fondamentale nel 2018. Come vede il connubio religione-nazione?
In risposta alla promulgazione della legge in tribunale ho ottenuto che venisse cancellata dalle mie registrazioni anagrafiche la voce sulla nazionalità. Ho fatto ricorso sostenendo che con questa legge avevano creato una nuova nazionalità di cui io non faccio parte perchè mi identifico con una nazione storica di tutt’altro tipo. Il ministero dell’interno ha protestato, ma li ho portati di nuovo in tribunale e adesso nei miei estratti alle voci nazionalità e religione figurano solo trattini.

In Israele, forse per la prima volta nella storia del popolo ebraico (sempre che esista un’unica storia), è nata un’identità crogiolo di cinque componenti che non avevamo mai detenuto contemporaneamente: territorio, potere, sovranità, religione e lingua. Gli addetti alla fabbrica delle coscienze qui danno l’impressione che se uno non accetta una delle componenti, non vale assolutamente nulla. Nella pratica c’è in corso una sorta di guerra fredda tra due modelli di religione e Stato: c’è un modello islamico top-down e uno cristiano e occidentale bottom-up. Sul campo di battaglia cadono delle vittime, tuttavia la politica per sua natura è sempre indietro di una generazione rispetto a quello che succede nella realtà e, se da un lato assistiamo a manifestazioni terribili, di fondamentalismo, razzismo e ristrettezza di vedute ecc., d’altro si va imponendo anche una gamma di alternative. Mi riferisco al fatto che, benché non siano legali, vengono celebrate centinaia di unioni civili, la gente riesce a metter su famiglia senza sposarsi presso il rabbinato, vi sono attività aperte di sabato, c’è un 60-70% di trasporto pubblico funzionante di sabato, c’è gente che non pratica la circoncisione ecc. De jure è complicato, ma de facto la possibilità di vivere una vita in cui ci sono separazioni significative tra identità e appartenenza si va consolidando.

In agosto ha contribuito alla fondazione di un partito che tuttavia non concorre a queste elezioni. Di cosa si tratta?
Tutti i partiti in Israele si basano sul concetto di nazionalità, ebrei e arabi. C’è un partito ebraico in parlamento che ha membri non ebrei e uno arabo con un parlamentare ebreo, ma in generale le grandi organizzazioni sono etnico-culturali o etnico-religiose. Al contrario, noi abbiamo fondato un partito civile egalitario il cui principio organizzatore è basato su uguale cittadinanza per tutti. Una sorta di idea costituzionale di base. Uno Stato deve avere un equo rapporto con tutti i suoi cittadini e appartenere a ognuno indistintamente.

Che soluzione al conflitto proponete?
Tutta la questione dell’occupazione è immorale e bisogna mettervi fine una volta per tutte. Io appartengo alla prima generazione che ha sostenuto la soluzione di due Stati per due popoli, ma credo che sia ormai impossibile. La questione che si pone oggi è quale tipo di Stato unico ci sarà. Sarà un unico Stato con due regimi diversi, uno per gli ebrei con tutti i privilegi e un altro pieno di discriminazioni per i palestinesi, oppure un unico Stato, come crediamo noi, che si estende tra il Giordano e il mare e in cui ogni uomo ha il diritto di ricevere gli stessi diritti?

Che messaggio vorrebbe trasmettere ai lettori europei?
Il mondo consente all’unico paese occidentale, Israele, di condurre una vita che nega diritti democratici fondamentali a milioni di persone solo per via della speciale posizione che si è acquistata riuscendo, tra le altre, a trasformare l’Olocausto in un’arma politica e governativa. Non durerà in eterno. Tra due generazioni Hitler, Barbarossa o Carlo Martello saranno assimilabili, troppo lontani nel tempo. Se Israele vorrà far parte del sistema occidentale dovrà rispettare delle regole, altrimenti riceverà lo stesso trattamento di Pakistan e Iran. Stiamo prendendo tempo. È vero che, finché gli Usa si ergeranno univocamente a fianco di Israele, non potranno fungere da mediatore onesto e che, finché nel cuore dell’Europa la Germania sarà la protagonista, non ci sarà una politica occidentale in Medio Oriente. Inoltre i partiti di destra hanno bisogno della benedizione di Israele per perseguitare i musulmani. Siamo di fronte a una giudeofilia mossa dalla islamofobia. Purtroppo l’Israele di destra e conservatrice, pro-Bibi e populista, collabora a questa modalità razzista.

Come vede il futuro? Nutre ancora speranza?
Oggi il futuro nel mondo occidentale angoscia più che mai. Non si intravedono soluzioni immediate a questioni come il riscaldamento globale, l’incertezza economica e l’armamento nucleare e tutti cercano un momento nostalgico a cui aggrapparsi: Putin insegue lo zar del decimo secolo e noi pensiamo di ricostruire il Santuario. Il passato sembra più promettente del futuro. Inoltre, se fino alla crisi economica del 2008 pensavamo di essere onnipotenti, ora abbiamo scoperto che il razionalismo ha molte debolezze e questo spinge le persone a cercare spiegazioni pericolosamente irrazionali.

Tuttavia di natura sono un ottimista e penso che, guardandola in prospettiva, l’umanità, pur con tutti i suoi problemi, vada migliorando: nel mondo sono diminuiti la fame, l’analfabetismo, la mortalità neonatale, il lavoro minorile ecc. Inoltre, benchè almeno il 70% degli israeliani sostenga che non si vada nella giusta direzione, secondo le statistiche Israele è uno dei paesi più felici al mondo.

Il ruolo dell’intellettuale critico deve essere quello di proporre alternative a una realtà problematica senza aspettarsi consenso e approvazione immediati. Se l’alternativa è valida, un giorno o l’altro verrà presa in considerazione. Guarda Hanna Arendt come è rilevante oggi rispetto all’epoca in cui è vissuta.