Mezza Africa in ginocchio

Allarme carestia – Cambiamento climatico e intervento umano stanno causando una gigantesca emergenza alimentare. A questo si aggiunge la crescente indifferenza internazionale, ispirata dalla nuova presidenza americana
/ 27.02.2017
di Pietro Veronese

Come le luci di un sistema di sicurezza andato improvvisamente in tilt, segnali d’allarme hanno preso a levarsi tutti insieme da una moltitudine di Paesi africani a sud dell’Equatore. La causa è ovunque la stessa: una siccità feroce che sta trascendendo in carestia. Dal Kenya al Malawi, dal Camerun allo Zimbabwe, da Ruanda al Sud Sudan, dal Ciad alla Somalia, fino ad ampie regioni del Sud Africa, rimbalzano notizie di livelli delle acque pericolosamente abbassati, raccolti insufficienti, morie di bestiame assetato e senza più pascolo, gruppi umani a rischio minacciati di morte: in particolar modo i bambini e i rifugiati ammassati nei campi profughi. La vastità dell’emergenza che si va disegnando giorno dopo giorno è davvero impressionante, coinvolge potenziali vittime che assommano a decine di milioni di individui e spazia su un territorio così vasto da apparire ingestibile. Nelle caselle email dei giornalisti piovono comunicati delle maggiori agenzie Onu, dal World Food Programme, incaricato di garantire il fabbisogno alimentare, all’Unicef, che si occupa dei bambini, nel tentativo di risvegliare un’opinione pubblica apatica e al dunque indifferente. Lo stesso fanno le grandi ong internazionali ma al momento la risposta appare assente o comunque inadeguata al bisogno.

Potrebbe apparire sorprendente che un fenomeno di questa portata venga segnalato quando è già in atto e sembra non esserci più tempo. L’evoluzione climatica, la produzione agricola, il rifornimento alimentare sono sorvegliati da organismi molto efficienti e tecnologicamente agguerriti: la cata-strofe che oggi si va disegnando avrebbe dovuto essere avvistata molto tempo prima. Così è infatti, ma soltanto in parte. C’è stato un momento, circa un anno fa, in cui alcune voci si sono levate: conferenze stampa di dirigenti delle Nazioni Unite e delle maggiori associazioni umanitarie. Ma l’eco si è subito spenta.

I motivi sono sostanzialmente due, entrambi paradossali. Il primo è la modalità con cui funziona l’opinione pubblica. Essa si mobilita a partire da forti emozioni, solitamente attivate da immagini diffuse attraverso il pianeta da televisioni, siti e social network. Una siccità non desta particolare attenzione; una carestia sì, con il suo spettacolo di sofferenza umana e di morte. Per questo gli allarmi tempestivi finiscono per essere inascoltati, e solo quelli tardivi hanno un qualche effetto. È solo quando il pubblico occidentale può essere messo davanti all’evidenza della catastrofe che le coscienze si risvegliano, si attiva la generosità e le raccolte fondi indispensabili per agire danno qualche frutto. Ma a quel punto la catastrofe è già in atto, prevenirla non è più possibile. Per come funzionano le cose, insomma, non è possibile lanciare allarmi se non quando è troppo tardi.

Il secondo paradosso riguarda i governi dei Paesi coinvolti. Per motivi di orgoglio nel migliore dei casi, di semplice auto-difesa del proprio potere nel peggiore, questi regimi sono restii a dare pubblicità alle piaghe che colpiscono le loro popolazioni. Vogliono scrollarsi di dosso l’immagine di un’Africa bisognosa, dipendente dall’aiuto internazionale, ancora una volta vittima impotente. La memoria della carestia degli anni Ottanta del secolo scorso ancora brucia alle autorità etiopiche, per esempio: all’epoca il regime era un altro, poi sconfitto militarmente dalle forze che ancor oggi governano ad Addis Abeba e che non vogliono essere in alcun modo assimilate alla precedente dittatura.

Per queste ragioni esse non tollerano la diffusione di immagini che possano anche lontanamente richiamare alla mente la catastrofe di allora, i bambini con il ventre gonfio e gli occhi accecati dalle mosche, gli scheletri viventi che schiantano al suolo e si lasciano morire senza più forze. Insistono nell’affermare che il Paese è cambiato, la logistica migliorata, le riserve alimentari assicurate, la macchina statale infinitamente più efficiente. Meriti che hanno tutto il diritto di rivendicare, ma che assopiscono la sensibilità dei Paesi donatori generando la falsa impressione che l’emergenza non sia poi in effetti tale e tutto sia sotto controllo.

Il risultato è che la macchina degli aiuti, sorretta dal contributo finanziario dei governi e dei cittadini dei Paesi d’Occidente, sa troppo poco, e si muove troppo tardi. In queste settimane si sta mettendo finalmente in moto, ma le richieste di fondi arrivano improvvisamente tutte insieme. Agenzie Onu e ong come Save The Children chiedono risorse per centinaia di milioni di dollari ed è lecito dubitare che la risposta possa essere sufficiente.

All’origine dell’emergenza in corso c’è il cambiamento climatico. Gli scienziati e ancora una volta gli organismi competenti delle Nazioni Unite lo vanno ripetendo da tempo. L’alterazione delle temperatura del pianeta colpisce in maniera irrimediabile le latitudini più a rischio, l’irregolare distribuzione delle piogge fa il resto. Sono almeno due anni che i raccolti dell’Africa a sud del Sahara sono ampiamente inferiori alle attese. I maggiori bacini lacustri si vanno restringendo, privando le popolazioni della pesca tradizionale e dell’acqua per l’irrigazione. È questo il caso di almeno due fra i più grandi serbatoi del continente, il lago Ciad e il lago Turkana, nel nord del Kenya.

Ma pur ammettendo che il cambiamento climatico sia un fenomeno naturale e non una piaga causata dall’uomo, ad esso si assommano cause più direttamente umane, dando luogo alla «catastrofe perfetta» a cui stiamo assistendo. Le emergenze più acute, infatti, sono dovute all’effetto combinato del clima e dei conflitti in corso. Il Sud Sudan, Paese ultimo nato al mondo (è indipendente dal 2011), spaventosamente povero pur avendo grandiose riserve petrolifere, è sprofondato in una guerra civile che ha dislocato intere popolazioni e impedito in vaste sue regioni qualunque attività agricola. Questo stato di cose sta ora varcando il limite della sopravvivenza. Gli organismi internazionali si sgolano: cinque milioni di persone – la metà degli abitanti – sono alla fame. FAO, UNICEF, World Food Programme dicono che non c’è più tempo. La carestia è stata proclamata ufficialmente, un milione di bambini non hanno da mangiare in un Paese praticamente senza strade e preda di bande armate.

Anche la crisi che si addensa da tempo intorno al lago Ciad come un ciclone intorno al proprio occhio ha cause umane. Qui, al confine semidesertico tra Nigeria, Niger, Ciad e Camerun, il fattore scatenante è stato Boko Haram, la guerriglia islamista che ha messo a ferro e fuoco una delle regioni più misere della Terra, imponendo alla sua povera gente sofferenze inaudite. Il conflitto che ne è scaturito ha costretto anche qui all’esodo milioni di persone, agricoltori trasformati in sfollati incapaci di sostentarsi. Queste masse bibliche si sono addensate intorno alle sponde del lago Ciad, un tempo fonte di vita, oggi in gran parte svuotato della sua acqua dall’effetto combinato del clima e del suo carico umano.

Anche in Paesi che sono in pace, dove la governance è buona e citata ad esempio dai donatori occidentali, come ad esempio il Ruanda o il Malawi, i raccolti sono ampiamente insufficienti. L’effetto combinato di tanti fattori critici sta mettendo in ginocchio mezza Africa, il più fragile e vasto ecosistema umano del nostro pianeta.