Majorité rurale, honte de la France! È il 13 febbraio 1871, a lanciare il grido è il rivoluzionario marsigliese Gaston Crémieux. Siamo a Bordeaux, nella sede provvisoria dell’assemblea nazionale che non può riunirsi a Parigi dove in seguito alla sconfitta contro la Prussia e alla caduta del Secondo Impero serpeggia la rivolta. Spiccano nell’aula il poncho e la camicia rossa di Giuseppe Garibaldi: venuto a combattere per la Francia, alcuni dipartimenti lo hanno eletto deputato. È qui solamente per rassegnare il mandato ma c’è una «maggioranza rurale», frustrata per la disfatta, che non accetta la presenza dello straniero, una maggioranza realista e clericale che vede personificati nell’uomo in camicia rossa i suoi incubi ideologici. È proprio contro lo strepito dei ruraux, i deputati reazionari, che dalle tribune del pubblico Crémieux inveisce parlando di «vergogna della Francia». Forse pensa alla Vandea, alla contro-rivoluzione che ottanta anni prima incendiò le province occidentali, sfidando il potere giacobino in un sanguinoso confronto con Parigi empia e regicida.
La campagna contro la città. È un Leitmotiv che attraversa la storia non soltanto europea, ora riproposto dall’attualità. Quella francese per esempio, dove da alcuni anni si registra l’impennata dei consensi per l’estrema destra sovranista, anti-europea e anti-immigrazione del Front National di Marine Le Pen. L’analisi del voto presidenziale al primo turno offre l’immagine di un contrasto di fondo fra le aree metropolitane, tendenzialmente sorde ai richiami dell’ultradestra nazionalista così come un tempo lo furono a quelli del legittimismo monarchico, e una provincia sedotta dagli slogan della pasionaria nera. Parigi, la scettica capitale del progressismo illuminista, contro Clochemerle, il mitico borgo scaturito dalla penna di Gabriel Chevallier, il luogo del patois e delle bocce, del buon cibo e del buon vino, il rustico tempio dell’identità profonda che cerca di resistere alle insidie della modernità.
Fatto sta che Parigi non ha concesso a Marine, del resto largamente premiata da Clochemerle, che il cinque per cento dei voti, Lione meno del nove. Sul tema dell’integrazione e delle correnti migratorie è interessante notare come il fenomeno incida meno proprio dove è più massiccio. In provincia, invece, l’oscuro timore dell’«invasione» si aggiunge alla crisi dei posti di lavoro legata alla delocalizzazione industriale. Bisogna considerare un importante elemento demografico. Se nella Francia ottocentesca di Crémieux la popolazione rurale era in netta prevalenza numerica su quella urbana, oggi la situazione si è rovesciata, l’urbanesimo conseguente all’industrializzazione ha spostato masse di cittadini nei centri metropolitani. Dunque il voto delle campagne non è più majorité, e proposte politiche come quella del Front devono fare i conti con un uditorio potenziale relativamente più esiguo.
Se Parigi volta le spalle al lepenismo, New York, Los Angeles, Chicago dicono no a Donald Trump. Nelle grandi città la sfidante Hillary Clinton ha raccolto quella messe di suffragi che le ha permesso di conquistare la maggioranza del voto popolare. Un successo vanificato dal meccanismo elettorale fondato sull’articolazione federale dell’Unione, che ha determinato la vittoria di Trump. Anche negli Stati Uniti il rito elettorale rivela il profondo contrasto fra metropoli e provincia. Poiché la distribuzione demografica in America, come in tutti i paesi sviluppati, registra una netta prevalenza della popolazione urbana rispetto a quella delle campagne, le previsioni puntavano sulla candidata democratica, forte proprio nelle aree più popolose. Ma contro di lei era in agguato la confluenza dell’America profonda tendenzialmente isolazionista, ammaliata dalle bordate di Trump contro gli immigrati e i trattati, con il furioso malcontento operaio negli storici distretti industriali, investiti dalle ripercussioni occupazionali legate alla globalizzazione.
Esattamente come in Francia, i cittadini delle aree metropolitane da sempre multietniche, i luoghi del melting pot a cominciare da New York, considerano essenziali gli apporti dell’immigrazione: i newyorkesi sanno quanto il ruolo mondiale della loro metropoli debba al lavoro e all’impegno della componente non autoctona e quindi trovano antistorica e innaturale la visione trumpista dell’America fortezza assediata, che vagheggia una grande muraglia a sbarrare il confine col Messico. Questa stessa visione seduce l’America profonda, quella della Bible belt dove ancora sventolano le bandiere confederate, l’America che si stringe attorno ai suoi miti e alle sue tradizioni e non vuole che li si metta in discussione, l’America che coltiva la sua passione per le armi da fuoco e non vuol saperne di immigrati, siano o non siano islamici. Anche perché certe antiche certezze sono spesso andate in frantumi, per esempio la fabbrica che non c’è più, i ragazzi che devono cercar lavoro altrove. In definitiva, che cosa pretendono questi stranieri?
È la stessa domanda che si pongono i sudditi di sua maestà britannica residenti a distanza di sicurezza dalle grandi città. Anche qui il contrasto fra provincia e metropoli ricalca lo schema classico. Lo si è visto in occasione del referendum sulla Brexit: non è stata certamente Londra, città multietnica per eccellenza con oltre un terzo della popolazione immigrata o discendente d’immigrati, che non a caso ha scelto come sindaco un uomo di nome Sadiq Aman Khan, di origini pakistane, a caldeggiare l’abbandono dell’Unione Europea e l’adozione di visti d’ingresso per chiunque bussi alle porte del Regno Unito. Di fatto quasi due londinesi su tre hanno votato remain, certo preoccupati anche dalla prospettiva, implicita nell’uscita dall’Unione, di perdere quella condizione di centro finanziario mondiale che ha reso sfavillante la metropoli britannica.
Assieme alla Scozia, all’Irlanda del Nord e in misura minore al Galles, aree in vario modo condizionate da tradizionali aspirazioni autonomistiche rispetto al Regno Unito a trazione inglese, la maggioranza degli elettori di città ha detto no ai sovranisti. La decisione di negoziare l’uscita dall’Unione è passata di stretta misura grazie al voto massiccio di chi abita le «cinture verdi» attorno ai grandi centri urbani. Anche nel caso britannico il pronostico di un’affermazione del no legato alla prevalenza numerica della popolazione urbana è stato contraddetto dal fatto che ampie frange del tradizionale voto operaio, deluso da chi non ha saputo ostacolare la fuga di tante attività industriali, ha deciso di assecondare chi indicava nell’Europa la fonte di tutti i guai. Nell’Europa, fra l’altro, dominata dalla Germania, elemento che introduce nella questione una diffidenza ancestrale, radicata nella storia accidentata dei rapporti anglo-tedeschi.
Infine, la Turchia. Anche qui il voto referendario, voluto dal presidente Recep Tayyp Erdogan per garantirsi la gestione del potere esecutivo e il controllo del giudiziario, ha rivelato la stessa articolazione fra città e campagna che fin dai tempi di Crémieux sembra diventata una costante universale. La megalopoli Istanbul con i suoi quindici milioni di abitanti, e altre grandi aree urbane come Smirne, Ankara, Adana, hanno respinto la proposta di riforma costituzionale che di fatto rende legittimi i superpoteri esercitati da Erdogan dopo il tentato colpo di Stato di nove mesi or sono. Ma non è bastato, perché a parte il sospetto d’irregolarità segnalato dall’OCSE la sterminata provincia anatolica, profondamente religiosa, nostalgica dell’antica potenza ottomana e ostile sia all’Europa, sia allo Stato laico di Kemal Atatürk, trova naturale che il presidente, capo di un partito islamico, sia il padrone assoluto del Paese. Fanno eccezione le aree a forte presenza curda, dove si resiste alla pressione governativa, e le zone costiere che vivono di turismo, e dunque guardano con disagio alla prospettiva di una Turchia chiusa in sé stessa.
Richiede un’attenzione particolare la comunità turca espatriata in Europa, soprattutto in Germania, Francia, Olanda. Sembra ovvio che il contatto con la cultura occidentale possa farvi emergere valori «metropolitani», in effetti questo è accaduto per molti turchi-europei. Ma la tendenza è corretta da due altri fattori. Il primo: alla presenza turca in Europa contribuì la fuga di cittadini di profonda fede religiosa, dunque in disaccordo con le politiche laiciste del passato e oggi favorevoli al ritorno di fiamma islamico. Secondo elemento: il rifiuto di alcuni Paesi europei, a cominciare dalla Germania e dall’Olanda, di consentire manifestazioni di propaganda elettorale per il referendum di Erdogan. Quest’ultimo ne ha spregiudicatamente approfittato per calcare la mano, arrivando all’accusa di risorgente nazismo, sui temi dell’orgoglio e della dignità nazionale. E così a Kreuzberg, cuore turco di Berlino, c’è chi la pensa come nel più sperduto villaggio anatolico.