Una delle conseguenze della pandemia è la riduzione della mobilità delle persone: cioè quella che per decenni fu una delle componenti fondamentali della globalizzazione. Conosciamo le molte dimensioni di questo cambiamento nei Paesi occidentali. Viaggiare è diventato più complicato, per gli obblighi di Green pass e tamponi. Forse questo prelude a un cambiamento durevole, per esempio nella sostituzione dei viaggi di lavoro con riunioni in video a distanza: almeno per una certa percentuale delle trasferte professionali, la riduzione dei costi rende questa emergenza un’opportunità gradita per molte aziende. Ma nessun Paese occidentale si avvicina all’esperimento estremo che sta facendo la Cina.
Di fatto la politica «Covid zero» inseguita dalle autorità di Pechino ha semi-chiuso le frontiere da quasi due anni. Quei 150-180 milioni di cinesi dei ceti medioalti che erano abituati a viaggiare all’estero hanno dovuto rinunciare alle vacanze. Molte di queste famiglie sono «spezzate», se hanno dei figli che studiano all’estero la separazione forzata è un altro sacrificio pesante. Ma non sono solo i cinesi benestanti a subire privazioni. Anche quest’anno – per contrastare nuovi focolai, come quello della città di Xi’an – il presidente della Repubblica popolare Xi Jinping metterà restrizioni sui viaggi delle vacanze per il Capodanno lunare (che questa volta cadrà il primo febbraio prossimo). Per molti cinesi poveri – la popolazione migrante che dalle campagne va a lavorare nelle città è di circa 300 milioni – il Capodanno lunare è l’unica occasione per i ricongiungimenti familiari. Il ritorno a casa dei migranti cinesi è sempre stato uno dei più grandi trasferimenti di persone, con centinaia di milioni di loro impegnati a viaggiare. Oggi anche questa forma di migrazione interna è frenata.
In generale, più le frontiere si chiudono e la mobilità decresce, più cambierà fisionomia quella che abbiamo definito l’economia globale. C’è un enorme tabù sull’immigrazione, ignorato dai media: dopo una prolungata riduzione dei flussi in entrata (prima, negli Stati uniti, le restrizioni di Donald Trump, poi quelle dovute al Coronavirus), si lamentano penurie di manodopera in molti settori, ma al tempo stesso questa scarsità d’immigrati fa salire i salari delle classi lavoratrici di ogni genere e questo accade per la prima volta da decenni. È la conferma di un teorema classico ma ignorato dal pensiero unico politically correct (che si sovrappone al pensiero unico liberista): il mercato del lavoro è, come dice la parola stessa, un mercato. Come tale è regolato dalle leggi della domanda e dell’offerta. Se riduci la quantità di forza lavoro disponibile, l’equilibrio si sposta a favore dei lavoratori, il loro potere contrattuale aumenta, la loro condizione migliora.
I dati americani sono chiari. Il numero di visti d’ingresso rilasciati dagli Stati uniti è sceso del 60 per cento dal 2016 al 2020. Prima per una scelta deliberata dell’Amministrazione dell’allora presidente Trump, poi perché la pandemia ha fornito a Joe Biden una buona ragione, o un pretesto, per mantenere intatte molte restrizioni del suo predecessore. Risultato: ci sono milioni di stranieri in meno, negli Stati uniti, rispetto a quelli che ci sarebbero oggi se fossero continuati i flussi d’ingresso pre-2016. Alla fine del primo semestre di quest’anno c’era una lista d’attesa di 1,4 milioni di richieste di visti per lavoro, bloccati dai ritardi dell’Amministrazione Biden.
Nel biennio più recente, 2020 e 2021, una ricerca della Brookings institution indica che sono entrati un milione di lavoratori in meno negli Stati uniti, per la riduzione delle migrazioni. Questo dato va incrociato con quello sulla great resignation, la «grande dimissione» di cui si parla da mesi: un numero elevatissimo di lavoratori americani abbandonano il posto. Al ritmo di quattro milioni al mese in media danno le dimissioni: è una tendenza che dura ormai dalla primavera scorsa e non accenna a ridursi. Ci sono dietro tante motivazioni diverse, alcune legate alla pandemia. Ma un alto numero di dimissioni – non licenziamenti – è sempre stato un segnale positivo: in buona parte si tratta di persone che se ne vanno «sbattendo la porta», perché da un lato non sono soddisfatte dall’ultimo lavoro, d’altro lato sono ottimiste sulla possibilità di trovare di meglio. Ed è quel che sta succedendo per molti di loro, infatti le assunzioni sono abbondanti.
L’aumento netto degli occupati è stato di 6,1 milioni per i primi 11 mesi dell’anno. Il tasso di disoccupazione continua a scendere (4,2 per cento a novembre, dopo aver superato la soglia del 10 per cento durante la breve recessione da Covid). Attenzione ai settori: i numeri più alti di dimissionari si concentrano in attività come ristoranti e bar, hotel, grande distribuzione. Cioè sono a maggioranza camerieri, inservienti, commesse e cassiere. Cosa accade in una situazione in cui i datori di lavoro non possono più attingere a un abbondante bacino di nuovi immigrati in arrivo, disposti a lavorare per condizioni molto misere? Le aziende sono costrette ad alzare i salari. Ed è quel che sta accadendo. L’aumento medio del 4,6 per cento nei salari americani è già piuttosto elevato rispetto al passato, ma nasconde il fatto che i salari bassi aumentano molto più degli stipendi medio-alti. Con punte del +15 per cento in alcune mansioni come i camerieri. Per la prima volta si è invertita la forbice, sono i non laureati quelli che spuntano i migliori rialzi salariali, perché è in quella zona dell’economia che si verificano le penurie di manodopera più acute.
Che l’immigrazione impoverisca la classe operaia è una verità antica con la quale Joe Biden ha familiarità. La sinistra storica in America non aveva dubbi su questo. Nell’arco di tempo che va da Franklin Roosevelt nel 1933 a John Kennedy nel 1963, cioè nell’epoca in cui gli Stati uniti ebbero una vera «socialdemocrazia» – costruirono il primo Welfare, aumentarono gli investimenti pubblici, potenziarono i diritti dei lavoratori – le loro frontiere erano semi-chiuse. Poi arrivò la riforma delle leggi sull’immigrazione (Lyndon Johnson e la Green card). Fu allora che l’America diventò quella società multietnica dai tratti che conosciamo. Puntualmente cominciò, dagli anni Settanta e soprattutto con Ronald Reagan negli anni Ottanta, lo smantellamento del welfare e dei diritti dei lavoratori, l’aumento dei profitti a scapito dei salari, il peggioramento delle diseguaglianze. In particolare negli Stati uniti la concorrenza degli immigrati ha sempre depresso i salari dei lavoratori afroamericani nelle mansioni meno qualificate.
Infine quel luogo comune sugli immigrati che riempiono posizioni lasciate vuote dai nostri concittadini, prescinde dai livelli salariali: anche la raccolta della frutta e verdura nei campi, tipico settore dove abbonda forza lavoro immigrata, resterebbe «riservato» a loro se la paga fosse doppia, tripla, quadrupla, quintupla? È evidente che ad allontanare i nostri concittadini da certe mansioni ci sono problemi di status sociale, immagine e reputazione, ma anche la libertà per i datori di lavoro di sottopagare finché possono attingere al bacino dei migranti. Nel ritorno delle barriere contro la mobilità non bisogna vedere solo gli effetti negativi della pandemia.
Meno mobilità? Meglio per i lavoratori
La pandemia da Coronavirus ridefinisce i contorni dell’economia globale, dalla Cina agli Stati uniti
/ 10.01.2022
di Federico Rampini
di Federico Rampini