C’è una certezza: Fratelli d’Italia strariperà nelle elezioni del prossimo 25 settembre (25-27%). C’è una sensazione crescente: la sua leader, Giorgia Meloni, faticherà non poco a ottenere la presidenza del Consiglio e più ancora a varare il governo. I possibili traditori si annidano fra gli alleati di questa destra appena velata di centrismo: la Lega di Matteo Salvini, sfiorata dall’affaire dei fondi russi, e Forza Italia di Silvio Berlusconi. Così alle viste di un successo senza precedenti – la coalizione è accreditata del 45-46% contro il 28-29% del centrosinistra – le manovre e i pettegolezzi riguardano il futuro premier. Sarà per la prima volta una donna oppure il maschilismo mal celato di Salvini (10-12%) e di Berlusconi (6-8%) riuscirà a imbrogliare le carte?
Nel tentativo di sventare sgambetti e di anticipare i fratelli coltelli, la Meloni ha già affermato di dare per scontato che in caso di affermazione di FdI Mattarella sarebbe obbligato a conferirle l’incarico. Il che non è esatto: consultati tutti i partiti, il presidente della Repubblica affiderà il compito a chi offrirà le migliori garanzie di farcela. Tradotto: Salvini e Berlusconi indicheranno il loro candidato premier nella Meloni assicurandole quindi i voti per ottenere la fiducia in Parlamento o sceglieranno una tattica attendista? In tal caso Mattarella dovrà assegnare un semplice incarico esplorativo. Potrebbe darlo alla stessa Meloni, ma anche officiare una personalità al di fuori degli schieramenti.
Per mettersi nella miglior luce possibile la Meloni ha provato a modificare il profilo di battaglia, con cui, in quattro anni di opposizione, prima al governo M5S-Lega, quindi a quello delle larghe intese, è salita dal 4% al ruolo di primattrice. Dunque, dopo aver fatto l’occhiolino ai NoVax, ai NoEuro, agli omofobi, ai nemici dell’aborto, del suicidio assistito, della fecondazione eterologa, delle famiglie con due mamme o con due papà, all’improvviso è sembrata possibilista su tutto. A cominciare dalla posizione atlantistica: a fianco degli Stati Uniti nel sostegno all’Ucraina e al conseguente invio di armi. Anche nei confronti dell’Europa, più volte indicata quale matrigna e con trattati da ridiscutere, le posizioni sono diventate più aperturiste. D’altronde, la Meloni sa che l’Italia primatista del debito pubblico avrà bisogno di molta comprensione dalle istituzioni continentali per non ritrovarsi in balia di una crisi epocale. La fiammata dell’inflazione, l’esplosione della bolletta energetica, i problemi autunnali dell’economia pongono il Paese in una condizione assai delicata. Secondo i numerosi avversari della Meloni il quadro generale dovrebbe consigliare la scelta di un governo di salute pubblica aperto al maggior numero di forze politiche. Lei lo considera, non a torto, un trabocchetto per impedirle di raccogliere i frutti della sua felice intuizione del 2018.
Il convitato di pietra di simile guazzabuglio è Mario Draghi, l’attuale capo del governo. Viene ritenuto il migliore della storia italiana al pari del leggendario De Gasperi (1946-1953). La stragrande maggioranza dei suoi concittadini vorrebbe confermarlo da qui all’eternità: un premio per aver gestito al meglio la crisi sanitaria, la guerra in Ucraina, la saldezza dei conti pubblici. Con i suoi provvedimenti il Pil dell’Italia dopo il risultato stratosferico del 2021, oltre il 6%, si conferma anche in questi mesi complicati il migliore in Europa. In più può vantare la rilevante considerazione nelle principali capitali del mondo, la considerevole fiducia, che si espande fino all’Italia. Viceversa, Conte (M5S), Salvini e Berlusconi, impeditane l’elezione lo scorso gennaio alla presidenza della Repubblica con la tesi che fosse insostituibile nel ruolo di premier, hanno brigato per liberarsene. E se Conte e Salvini l’han fatto per rinforzare la propria traballante posizione nel partito, Berlusconi, forse tradito dall’età, ha recitato il ruolo dell’utile idiota.
Così Draghi è diventato l’emblema in campagna elettorale di Letta (Pd) e del duo Renzi-Calenda, autonominatisi rappresentanti di un centro assai asfittico. È diventata attenta ai sospiri di Draghi perfino la Meloni, che pure, a eccezione dell’Ucraina, mai gli ha votato la fiducia. Ci ha tenuto a far sapere di essere in contatto continuo, di condividere la scelta di non operare uno scostamento di bilancio, benché ci sia la necessità di aiutare le famiglie contro la stangata di gas, luce e petrolio. Non ha ribattuto nemmeno a quanti hanno indicato Draghi come una sorta di lord protettore del nuovo governo per accompagnarlo nei primi passi oltre le Alpi. Tuttavia, per molti quelli della Meloni sono aggiustamenti tattici, che non cancellano il suo passato. Significa le intese sotterranee con i movimenti di estrema destra, Forza Nuova e Casa Pound; significa un difficile distanziamento dal fascismo fino al testardo mantenimento nel simbolo della fiamma mussoliniana; significa i toni e i contenuti del comizio di giugno a Marbella in Spagna per sostenere un candidato di Vox: «Non ci sono mediazioni possibili, o si dice sì o si dice no. Sì alla famiglia naturale, no alla lobby Lgbt, sì alla identità sessuale, no alla ideologia di genere, sì alla cultura della vita, no a quella della morte. Sì ai valori universali cristiani, no alla violenza islamista. Sì alle frontiere sicure, no alla immigrazione massiva. Sì al lavoro per i nostri cittadini, no alla finanza internazionale. Sì alla sovranità del popolo, no ai burocrati di Bruxelles, sì alla nostra civiltà e no a chi vuole distruggerla. Viva l’Europa dei patrioti».
E sull’Europa, sulla difesa degli italiani dai suoi lacci è tornata a insistere domenica a Milano. In tal modo ha ridestato il timore di Letta che se il trio FdI-Lega-FI raggiungesse il 66% dei parlamentari potrebbe cambiare la Costituzione senza nemmeno il referendum confermativo. E la prima modifica sarebbe la trasformazione della Repubblica da parlamentare in presidenziale. Il pericolo, però, sembra lontano: con il criticatissimo sistema maggioritario per avere i due terzi degli eletti servirebbe il 56% dei voti, pari a 267 deputati su 400 e a 138 senatori su 200. Alla coalizione, ferma intorno al 45-46%, vengono attribuiti circa 240-250 deputati e 120-130 senatori. Simili numeri, comunque notevoli, sono stati favoriti dalle scelte sbagliate di Letta: non tanto il mitizzato campo largo, cioè l’alleanza impossibile con Fratoianni, Conte, Renzi, Calenda divisi da odi fraterni, bensì l’avere toppato i temi portanti della campagna elettorale esponendosi al fuoco degli ex amici Conte e Calenda. Il frastornato Letta, che sperava di salire dal 22 al 25% ed è invece sceso al 20%, è convinto di poter recuperare nelle ultime due settimane: punta soprattutto sul Meridione, sulla capacità di convincere quel 40% d’indecisi, sul voto utile contro i «fantasmi del neofascismo». Eppure, tra le ipotesi continua a galleggiare la fantasmagorica intesa fra Meloni e Letta con l’intermediazione di Berlusconi e Calenda per un governo emergenziale da affidare a Draghi. Forse sarebbe troppo per tutti e in più dimostrerebbe che non basta vincere le elezioni per governare.