In attesa che i ballottaggi del 26 giugno stabiliscano definitivamente i vincitori, c’è già uno sconfitto nelle elezioni amministrative italiane del 12: Matteo Salvini. Il leader della Lega ha subito una notevole batosta nel referendum per cambiare la giustizia, che s’accompagnava alla contesa per eleggere sindaci e consigli comunali riguardante 10 milioni d’italiani. L’ha votato soltanto il 20 per cento del corpo elettorale. È il peggior risultato di sempre in un istituto, che mostra la corda e sul quale si ragiona per ridurre il quorum (50,01 per cento). Salvini ci aveva puntato per accreditarsi un ruolo da protagonista convincendo i radicali, Berlusconi e l’ex mattatore Renzi a seguirlo. L’esito è stato disastroso. In quei due milioni di votanti i leghisti ascendono a meno di un terzo; insomma Salvini è stato abbandonato anche dai suoi al termine di un periodo assai controverso. Dal 34 per cento toccato nelle Europee del 2019 si sono susseguite scelte cervellotiche. Per inseguire l’affermazione personale Salvini ha finito con il ritrovarsi isolato perfino nel partito. La stessa scelta pseudo pacifista nell’invasione putiniana dell’Ucraina, oltre a isolarlo all’interno del Parlamento, è evoluta nel mancato viaggio a Mosca con il perfido annuncio dell’ambasciata russa di aver anticipato i rubli necessari.
Il fallimento del referendum non rappresenta per Salvini l’unica cattiva notizia della tornata elettorale. Quasi ovunque si registra il sorpasso di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni nei confronti della Lega, con Forza Italia totalmente fuori dai giochi. Perfino nei piccoli comuni del profondo Nord, abituale bacino del consenso leghista, Meloni è stata premiata dall’essere la sola opposizione alla Camera e al Senato. Costituisce l’annuncio dei mesi turbolenti in vista delle elezioni nazionali della prossima primavera. Salvini non sembra disponibile ad accettare la leadership di Meloni e gode del sotterraneo sostegno di Silvio Berlusconi. Tuttavia anche stavolta le urne hanno confermato che il centrodestra vince se è unito; in caso contrario concede un atout straordinario al centrosinistra, attualmente minoritario nel Paese.
Si spiega quindi il tentativo di Enrico Letta, segretario del Pd, di attrarre nella propria orbita i settori più moderati di Forza Italia, preoccupati per il calo delle percentuali, figlio pure del progressivo appannamento di Berlusconi, costretto a fare i conti con l’età (86 anni). Il Pd risulta il primo partito, ma il progetto «campo largo» di Letta, cioè l’alleanza con il M5S dell’ex premier Conte, mostra la corda per la situazione deficitaria dei pentastellati. In parecchi dei 971 comuni nei quali si è votato, il M5S non si è presentato; dove l’ha fatto, quasi mai ha toccato il 10 per cento (nel 2018 aveva superato il 33 per cento), anzi è spesso finito dietro il movimento centrista Azione, il cui leader Carlo Calenda si propone ai democratici quale alternativa al M5S, con i quali rigetta ogni accordo. Per Conte, sempre più orfano di se stesso presidente del Consiglio, è comunque giunta una buona notizia: il tribunale di Napoli ha respinto il ricorso contro la sua elezione a presidente del Movimento. Adesso deve trovare il modo di rinvigorire la creatura politica fondata tredici anni addietro dal teatrante Beppe Grillo. Sulla carta l’impresa pare disperata.
Per Letta costituisce un problema ulteriore dentro una fase già di per sé molto delicata. Benché abbia costruito l’attuale primazia del Pd, da lui preso in una condizione catatonica, il suo futuro si gioca sull’esito del suffragio 2023: non gli basterebbe guidare il partito più votato, conterà esclusivamente l’incarico di formare il governo. E il sistema in vigore lo penalizza giacché premia le coalizioni: da qui lo sforzo di varare una riforma proporzionalista, su cui Letta spera di attrarre anche il Salvini voglioso di sottrarsi alla leadership di Meloni. Senza dire che il proporzionale potrebbe consentire alle numerose formazioni centriste di avere un peso determinante nella composizione di una maggioranza con l’adozione di formule ritenute al momento impensabili. Mai dimenticare che in Italia sono state varate le «convergenze parallele», il «governo della non sfiducia», la «politica dell’attenzione».Sull’insieme di progetti e di aspirazioni pendono, però, tante variabili.
Dai sussulti dell’economia con l’inflazione e il costo del denaro galoppante, dopo l’annuncio della Bce sul rialzo dei tassi, al proseguimento della guerra in Ucraina con l’impennata delle bollette energetiche e la crisi delle materie prime. È bastato il semplice annuncio delle prossime difficoltà per scatenare l’istinto anti-euro, anti-europeo e anti-atlantico di Salvini, mentre Meloni ha usato toni appena appena più contenuti. Loro due sono convinti di parlare alla pancia del Paese, ma a Parigi, a Berlino, a Madrid, a Washington come reagiranno dinanzi a simili posizioni? L’Italia ha fin qui ospitato l’ala più filo-russa, e assai trasversale, del Vecchio Continente. Le tesi, e soprattutto le pretese, di Putin hanno trovato un ascolto molto partecipato. Si sono mossi anche i servizi segreti per appurare se si trattava di opinioni in libertà o se fossero a tassametro. Il sospetto è che dietro le mille critiche a Mario Draghi e al suo netto schierarsi in difesa dell’Occidente non ci fosse l’esclusiva manifestazione di un pensiero contrario.
Eppure, proprio Draghi viene evocato quale possibile terminale di quanti, e non sono pochi, ritengano la sua figura la sola in grado di condurre la Nazione negli anni procellosi che si prospettano. Ma Draghi non ha un partito, non intende partecipare alle elezioni, non si schiera. Potrebbe soltanto ascoltare un grido di dolore come più o meno ha fatto l’anno scorso. A sinistra ne sarebbero lieti, al contrario Salvini e Meloni minacciano di scendere in piazza e alzare barricate contro quello che definiscono il governo dei poteri forti, come se potesse esistere un potere debole. Di sicuro non ci annoieremo.