Massimo D'Alema: adesso o mai più

Figurine d’Italia Il referendum sulla riforma è la sua ultima occasione per tornare in campo
/ 01.10.2016
di Alfio Caruso

È inseguito dalla maledizione del nome proprio: quel Massimo, che i suoi avversari trasformano in Minimo a ogni sconfitta. Ed essendo queste molto più numerose dei successi, il baffetto di D’Alema ha di che sussultare dinanzi ai ricorrenti sberleffi. Per lui vale la velenosa battuta di Pajetta nei confronti di Berlinguer, ai tempi del Pci (Partito comunista italiano): iscritto sin dalla tenera età alla direzione centrale del partito comunista. D’Alema, addirittura, cominciò da bambino quando gli fecero offrire un mazzo di fiori a Palmiro Togliatti, il leggendario segretario del partito che amava Stalin, soprattutto se stava a tremila chilometri di distanza. Anche D’Alema ha amato allo stesso modo Longo, Berlinguer, Natta, Occhetto, ma con la sfortuna di averli nella stanza accanto. Lui studiava come soffiare loro il posto, convinto di una predestinazione frutto dell’intelligenza, che pensa di possedere in dosi nettamente superiori a qualsiasi altro essere del creato. I soliti malevoli critici ritengono, invece, che si tratti di furbizia, per altro non sempre applicata al meglio.

In prossimità dei settant’anni, D’Alema rischia di passare alla storia come l’uomo delle occasioni mancate cominciando dalla fallita laurea alla Normale di Pisa. Si arrampicò sulle spalle di Occhetto per giungere alla segreteria dell’allora Pds (Partito della sinistra) sfruttando la batosta rimediata dal rivale alle elezioni del ’94 contro Berlusconi. Tuttavia, nella sua iattanza dimenticò che lui e gli altri compagni non erano politicamente finiti sotto le macerie del crollato muro di Berlino sol perché Occhetto, sfidandoli, aveva nell’89 cambiato il nome e il destino del vecchio Pci. Da segretario D’Alema ebbe l’intuizione giusta di puntare sul collaudato democristiano Prodi per battere Berlusconi nel ’96, ma il ruolo di regista gli andava stretto. Gli avversari, e lo stesso Prodi, gli attribuiscono la congiura di palazzo con cui divenne presidente del Consiglio nell’ottobre ’98. Durò un anno e mezzo, travolto dalla disfatta alle regionali del 2000 e dalla micidiale osservazione dell’ex presidente della Repubblica, Cossiga: Palazzo Chigi è l’unica merchant bank del Paese dove non parlano l’inglese.

Il riferimento riguardava la partecipazione attiva del governo ad alcuni sommovimenti azionari, in primis il sostegno accordato agli scalatori di Telecom. D’Alema li aveva definiti «capitani coraggiosi», in realtà erano soltanto speculatori in cerca dell’affare della vita. Ma le vere speranze di gloria del figlio della «marescialla», così veniva indicata nel partito la mamma di D’Alema, erano riposte nella Bicamerale incaricata di riscrivere la Costituzione con ambizioni molto più vaste di quelle renziane. D’Alema se n’era attribuito la presidenza, aveva cercato e ottenuto la collaborazione di Berlusconi. Tutto preso dall’ingresso nella Storia, non si accorse che l’altro lo prendeva in giro: infatti lo piantò alla vigilia della riunione definitiva. Fu l’inizio dei rovesci: non solo gl’insuccessi nelle elezioni del 2001 e del 2008, il dover ricorrere nuovamente a Prodi per l’illusoria affermazione del 2006, ma anche l’impossibilità di tornare alla guida del Pds, poi tramutato in Ds e in Pd.

Nonostante il ferreo controllo sul tesseramento, parecchi militanti si erano stufati di essere trattati da minus habens: non volevano più saperne di questo sapientone abbonato alle sconfitte, della sua passione per le scarpe cucite a mano, per la barca a vela, per il vino prodotto dalle sue vigne di qualità. D’Alema, perciò, si dovette acconciare a trasformarsi in grande elettore di Veltroni, di Fassino, di Bersani riservando a se stesso il ruolo di ministro degli Esteri, convinto che il mondo per progredire non potesse prescindere dalle sue arti magiche. Purtroppo ha potuto esercitare il proprio magistero solo per un paio di anni, nel Prodi bis. Poi si è dovuto accontentare di presiedere la sua fondazione «Italianieuropei». La qualcosa, tuttavia, gli suggerisce di rispondere a ogni domanda fastidiosa con la formuletta «ma il mio lavoro è un altro». Quale, s’ignora. Anzi, gl’indomiti detrattori affermano che non abbia lavorato un giorno in tutta la sua esistenza. 

Proprio sulle sue pretese di dominus della politica internazionale si è consumato la frattura con Renzi, un altro che per arroganza non scherza. D’Alema aveva già subito la rottamazione parlamentare e confidava di essere ripagato con l’incarico di Alto rappresentante europeo per gli Affari Esteri. Renzi, al contrario, non si è fidato e ha puntato su Federica Mogherini, rivelatasi, però, una scelta sbagliata. Per non sparire, a D’Alema non è rimasto che intraprendere la guerriglia contro l’usurpatore fiorentino. Appena sono sopraggiunti i primi intoppi per il governo, si è scatenato in un’opposizione a tutto campo puntando sulle intese sotterranee fra Renzi e Berlusconi, l’ex compare con il quale lui voleva financo riscrivere la Costituzione.

Il referendum sulla riforma è stato vissuto da D’Alema come l’ultima occasione per riconquistare la ribalta. È il propugnatore più autorevole del No, disposto a chiudere gli occhi sugli impresentabili, stando ai suoi precedenti giudizi, compagni di viaggio: dallo stesso Berlusconi a Grillo, da Brunetta a Salvini. E se dovesse andar male, lo dicono prontissimo alla scissione, ammesso che qualcuno sia disposto a seguirlo. Paradossalmente è il suo accanimento a far sperare i fautori del Sì. Confidano che anche stavolta venga confermata l’infallibilità del perdente massimo D’Alema.