Sigillata la rotta balcanica, ridimensionata quella mediterranea, adesso i profughi tentano la via del Mar Nero. Sulle loro imbarcazioni di fortuna partono dalla costa turca e dirigono a nord-ovest verso i porti della Romania, solcando le onde del mitico Ponto Eusino in cui navigò Giasone alla ricerca del Vello d’oro. Sono soprattutto siriani, iracheni, afghani, provengono dunque dalle più cruente aree di crisi di questo turbolento pianeta. Una volta in Romania, alcuni cercano di attraversare la Serbia e di qui raggiungere l’Albania, dunque l’Adriatico e l’Italia. Altri puntano verso la blindatissima frontiera ungherese, il formidabile ostacolo che li separa dal sogno dell’Europa del Nord, ai loro occhi terra di pace, lavoro e sicurezza. Siamo ancora nell’ordine di grandezza delle centinaia ma i romeni cominciano a preoccuparsi, i flussi fuori controllo seminano ansia e timori, già s’intravvede chi è pronto a cavalcare, come nei paesi da tempo coinvolti nel fenomeno, la tigre dell’invasione.
Sia pure con toni più morbidi rispetto a quelli decisamente ostili del Gruppo di Visegrad (Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria), il governo romeno contesta la strategia dell’Unione Europea a proposito di ridistribuzione dei profughi. In particolare si critica a Bucarest l’obbligatorietà delle quote di assegnazione, segnalando la disponibilità ad accogliere un numero di migranti molto inferiore agli oltre seimila decisi a Bruxelles. Va ricordato che la Romania, da dieci anni membro dell’Unione, è essa stessa un paese di emigrazione. Un vivace dibattito accompagna questi sviluppi, da una parte s’invoca il principio di solidarietà da cui discende il dovere dell’accoglienza, dall’altra si reagisce con accenti assai vicini alla xenofobia. «Amo i musulmani, ma a casa loro!», ha detto l’ex capo di stato Traian Basescu, facendo notare come un paese che non riesce a integrare la folta comunità rom non possa permettersi di gestire un’emergenza come quella migratoria.
Fatto sta che il contenimento dei flussi dalla Libia all’Italia ha avuto il prevedibile effetto di indirizzare quella marea umana verso altre destinazioni. Il meccanismo ha funzionato obbedendo a una legge fisica: nella logica dei vasi comunicanti la corrente interrotta o limitata cerca altre vie di scorrimento. Alla nuova rotta attraverso il Mar Nero si affianca la riscoperta di quella spagnola, dove negli ultimi mesi gli arrivi si sono quadruplicati rispetto a un anno fa. Ottomila immigrati hanno già raggiunto la Spagna dall’inizio dell’anno, in buona parte sbarcandovi dopo la breve traversata dal Marocco, mentre altri sono andati all’assalto della muraglia che protegge l’enclave di Ceuta, frammento d’Europa sulla costa nordafricana. La Spagna si colloca ormai al secondo posto, subito dopo l’Italia e prima della Grecia, nella graduatoria dei paesi presi di mira dal fenomeno migratorio.
L’intera Europa meridionale continua a funzionare come interfaccia con il Continente africano da cui provengono i tre quinti dei profughi, ma il ridimensionamento della rotta centrale ha divaricato i flussi verso occidente e verso oriente. Sono infatti ripresi gli sbarchi anche sulle isole greche dell’Egeo, tanto che le autorità di Atene accusano la Turchia di non mantenere fino in fondo l’impegno assunto nel marzo del 2016 con l’Unione Europea. In cambio della bella cifra di tre miliardi di euro, Ankara s’impegnò a sbarrare la strada che dalle sue frontiere con Iraq e Siria muove verso l’Europa. In realtà questa intesa ha ridotto in misura assai significativa la rotta terrestre attraverso i Balcani, ora rilanciata dalla direttrice marittima Turchia-Romania. È chiaro che queste regolamentazioni ufficiali vengono in parte vanificate dalle attività illegali, stimolate dall’elevatissima posta finanziaria in gioco. I trafficanti sono alla perenne ricerca di nuove vie di fuga.
Poiché dalla Libia, dopo l’intesa che ha mobilitato la locale guardia costiera, è diventato difficile prendere il mare, la parte di profughi che riesce a evitare i centri di detenzione cerca di valicare i confini di Tunisia e Algeria. Affidandosi a caro prezzo a trafficanti pronti a ospitarli sui loro precari barconi salpano diretti in Sicilia o nelle isole minori, dove spesso arrivano inosservati perché quei piccoli natanti sono sfuggiti all’intercettazione. A volte sbarcano su spiagge affollate di bagnanti da dove si allontanano rapidamente senza essere identificati né schedati. Gli scafisti algerini preferiscono puntare sulla Sardegna, dove quest’anno sono arrivati circa ottocento migranti. Non a caso da Cagliari è partito un appello al governo di Roma, perché provi a estendere all’Algeria la strategia adottata nei confronti della Libia.
La diversificazione delle vie di trasferimento dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa non fa che confermare la necessità di un approccio globale alla questione migratoria. Preme in questa stessa direzione anche una drammatica realtà: impedire ai profughi di partire può esporli a pericoli persino peggiori di quelli connessi con la navigazione su imbarcazioni insicure. Per esempio alla permanenza nei campi di raccolta libici, dove i più elementari diritti della persona vengono ignorati. Dunque si stanno ricercando soluzioni che implicano la vigilanza e la tutela: si parla di hotspots sotto controllo Onu. Se l’Europa intende ispirarsi ai suoi valori non può che tentare il coordinamento dei due obiettivi: ridurre gli sbarchi alleggerendo la pressione migratoria ma anche proteggere chi potrebbe essere esposto a trattamenti disumani.