Fino al febbraio scorso la Moldavia – Stato racchiuso tra Romania e Ucraina – di potentissime ne aveva due: la presidente Maia Sandu (nella foto), europeista decisa a liberare il suo piccolo, poverissimo Paese dalla cleptocrazia à la russe, e la premier Natalia Gavrilița, altra politica con curriculum impressionante la cui testa è caduta in un momento in cui le tensioni a Chisinau erano così forti che per qualche giorno il Paese è sembrato pronto a fare la fine dell’Ucraina. Lei forse si candiderà a sindaca della capitale, il suo rapporto con la presidente resta saldo, ma al suo posto è arrivato l’ex consigliere presidenziale per la sicurezza, Dorin Recean. Un rimpasto che ha permesso a Sandu di evitare l’azzardo delle elezioni e di continuare la sua difficile navigazione verso un futuro migliore per il suo Paese.
La donna forte di Chisinau è nata nel 1972 in una zona vicina alla Romania. Le foto del suo villaggio, Risipeni, raccontano di galline, anziane con il fazzoletto a fiori in testa e colline verdi in cui non si vedono quasi costruzioni. Studentessa brillante, si laurea in economia e poi fa un master in Pubblica amministrazione. A quel punto l’URSS è crollata e, dall’estero, l’attenzione alla creazione di una nuova classe dirigente è alta. Sandu lavora alla Banca Mondiale, al Ministero delle finanze e nel 2010 fa il grande salto: Kennedy School a Harvard. Poi un paio d’anni di lavoro a Washington prima di fondare il suo movimento, «In cammino con Maia Sandu», poi diventato un partito politico, «Azione e solidarietà», nel 2016, tra mille difficoltà, accuse di essere una creatura di George Soros e prese in giro perché non ha una famiglia.
Ai tempi la Moldavia era sotto il controllo effettivo di un oligarca, Vladimir Plahotniuc, così tossico e corrotto, nonostante le professioni di fede europeista, che il Consiglio d’Europa aveva definito il Paese uno «Stato prigioniero». Fette importanti dell’esiguo PIL nazionale svanivano nel nulla, lasciando la povera Moldavia ancora più povera. Nel 2014 ben un miliardo di euro si era volatilizzato nelle casse di tre banche che avevano poi avuto bisogno di un salvataggio a carico dei contribuenti per evitare il collasso del Paese. I cittadini erano insorti. Alle elezioni del 2016 Sandu aveva perso e il suo oppositore, il socialista filorusso Igor Dodon, aveva commentato tronfio: «Come può una che non ha saputo essere madre diventare una buona guida per il Paese?». Ma proprio con Dodon le è toccato fare un’alleanza nel 2019 per cercare di mandare via l’oligarca Plahotniuc, anche se il periodo di Sandu da prima ministra nel 2019 si era concluso davanti all’evidente successo della campagna anti-corruzione di Dodon. Alle elezioni del 2020 la musica è cambiata e Maia Sandu ha riportato una brillante vittoria, con un risultato addirittura straordinario tra i membri dell’imponente diaspora del Paese, che nel 1989 aveva 4,3 milioni di abitanti e ora ufficialmente 3,5 (ma quasi un milione di meno nella realtà). Una migrazione che pare un’emorragia, fatta di tante donne che sono andate a lavorare all’estero come badanti o braccianti. Per loro la povertà, la corruzione, l’inefficienza economica di un Paese che costringe ad andare via sono delle piaghe, tanto che il 93% ha votato per Sandu. Ma se, prima dell’inizio della guerra, alla gente della scelta tra Mosca e Bruxelles importava poco e in molti si irritavano davanti all’eterna lettura del Paese come pedina geopolitica, dopo l’invasione dell’Ucraina la situazione è cambiata, un po’ perché arrivata dopo una crisi del Covid contro cui il Governo non ha potuto nulla, ma soprattutto perché la vulnerabilità energetica del Paese ha portato i prezzi a salire del 400% in pochi mesi.
Gazprom ha ridotto le forniture per fare pressione sul suo vicino, che ora riceve gas e elettricità dalla Romania, e mettere in difficoltà Sandu, cercando di rafforzare il suo rivale Ilan Șor, oligarca filorusso il cui partito è stato messo fuori legge e continua a portare avanti azioni di disturbo sulla politica nazionale da Israele, dove vive, tramite la sua vice Marina Tauber. Un perfetto strumento da guerra ibrida, tanto più con due regioni instabili e filorusse come la Gagauzia, occhi a Mosca e cuore a Ankara, e la Transnistria, regione separatista in cui si parla solo il russo, si rifiuta l’utilizzo della valuta moldava (Lei), ci sono 1500 militari russi e il più grande deposito di armi e munizioni illegali d’Europa, con 20mila tonnellate di materiale d’epoca sovietica stipate a Cobasna. Da un punto di vista amministrativo la regione è parte della Moldavia e, seppur molto fragile, è una situazione antica che può contare sul fatto che il Governo di Chisinau riconosce la situazione di Tiraspol (capoluogo della Transnistria) e rispetta l’impegno preso a cercare una soluzione.
Vladimir Putin, il 21 febbraio scorso, ha invece deciso di venire meno ai patti, facendo temere il peggio, mentre circolavano voci di invasioni incrociate, di carrarmati ucraini in Transnistria o di carrarmati russi a Chisinau, magari per farne il nuovo Donbass e spostare lì l’attenzione militare di Kiev. Intanto, con la guerra, la Moldavia è diventata il posto più accogliente d’Europa, con oltre 760mila ucraini in transito e più di 100mila rifugiati, ma il suo esercito è inadeguato e la neutralità, iscritta nella Costituzione del 1994, impossibile da mantenere, tanto che Maia Sandu, da quel relitto sovietico che è il suo palazzo presidenziale, ha chiesto l’adesione all’UE subito dopo l’invasione dell’Ucraina.