«Carnet de la Patria» si chiama. Fa le funzioni di una tessera annonaria, che garantisce gratis una serie di prodotti alimentari come dimostrazione di fedeltà. È stato il protagonista delle elezioni che in Venezuela hanno riconfermato alla presidenza della repubblica Nicolás Maduro. Con il Carnet si ha accesso alla distribuzione di beni basici. «Una carnet mensile oggi vale due chilogrammi di pollo» dice Felipe Villa, professore di storia a Caracas.
Accanto a moltissimi seggi, il giorno delle elezioni sono stati montati grandi gazebo rossi. I cittadini dovevano passare di là prima di entrare a votare ed esibire il proprio Carnet de la Patria. Una forma ostentata di pressione e schedatura che il governo si limita semplicemente a negare, cancellando l’evidenza con ore di propaganda zuccherosa, scaduta di tono e di livello dopo la morte di Hugo Chàvez nel 2013, sostituito alla presidenza da Nicolas Maduro che non riesce a farsi riconoscere una leadership reale e che governa il Paese muovendosi come un burattino, ostaggio di una parte delle forze armate, un nutrito gruppo di generali, unico reale potere in un Venezuela allo sbando.
La bancarotta statale comporta il disgregarsi di quel poco di funzionante esistente ancora in Venezuela. L’emergenza sociale è drammatica. I prezzi raddoppiano letteralmente ogni mese. La monete non vale nulla e senza dollari non si vive. Chi non ha parenti che inviano valuta e viveri da fuori rischia la fame. Il numero dei poverissimi sta moltiplicandosi. Due milioni di venezuelani sono già scappati, soprattutto in Colombia e in Argentina. Chi resta deve sottoporsi ai tempi surreali di una città che galleggia sul petrolio, ma soffre numerosi black out per mancanza di energia elettrica. Il Paese è circondato dalla rigogliosa vegetazione del tropico, ma soffre per crisi idriche continue. Si finisce per rivendere illegalmente in strada sifoni di acqua recuperata in fiumiciattoli contaminati dove si riversano fognature e scarichi anche industriali senza nessun controllo.
Maduro è stato rieletto presidente del Venezuela con il 68 per cento dei voti, ma l’impianto assolutamente illegale con cui è stato convocato il voto, indetto da un’assemblea costituente autoproclamatasi tale che fa le veci del legittimo parlamento, esautorato ormai di ogni funzione, ha portato l’opposizione e la maggioranza della comunità internazionale a non riconoscere il risultato. Il principale candidato dell’opposizione, Henri Falcón, ha rifiutato di riconoscere la vittoria di Maduro. Secondo il Consiglio nazionale elettorale (Cne), il presidente uscente ha ottenuto 5,8 milioni di voti mentre il suo principale avversario Falcón ne ha ottenuti 1,8 milioni (il 21,2 per cento). Gran parte dell’opposizione ha deciso di non presentarsi alle consultazioni ritenendole irregolari. Secondo fonti ufficiali, l’affluenza alle urne è stata pari a circa il 46 per cento degli aventi diritto, mentre era stata dell’80 per cento alle elezioni del 2013.
Molti seggi elettorali, anche quelli dei quartieri popolari, sono apparsi semivuoti per tutta la giornata del voto, mentre in Venezuela è usuale vedere i marciapiedi occupati da lunghe file di cittadini in attesa di votare.
Tredici paesi latinoamericani più il Canada, riuniti nel cosiddetto Gruppo di Lima, hanno diffuso una dichiarazione comune denunciando che «gli standard internazionali per un processo democratico, libero, giusto e trasparente» non sono stati garantiti nelle elezioni venezuelane. Bolivia, Cuba e Salvador hanno invece inviato messaggi di sostegno a Caracas.
Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha firmato un ordine che limita la possibilità del governo venezuelano di vendere beni pubblici dopo le elezioni che la Casa Bianca ha definito «false». Si tratta di un ordine esecutivo che di fatto impone nuove sanzioni vietando ai cittadini statunitensi di essere coinvolti in operazioni legate alla compravendita di crediti connessi al petrolio e ad altri prodotti.
La Cina, alleato e principale creditore del governo di Caracas, ha chiamato le parti a «rispettare la decisione del popolo venezuelano».
Anche la Russia si è congratulata con Maduro e ha denunciato «il tentativo da parte degli Stati Uniti di influenzare il risultato delle presidenziali». La protesta russa difende interessi russi. Mosca sta mangiandosi il Venezuela un boccone alla volta. Ha firmato di recente con Caracas un accordo per dilazionare nei prossimi dieci anni il pagamento dei 3 miliardi e 150 milioni di dollari di debito venezuelano nei suoi confronti per l’ultimo credito statale concesso nel 2011. Il nuovo calendario di pagamenti prevede quote minime per i prossimi sei anni e lascia per ora in sospeso il mancato pagamento di altre rate per vecchi prestiti accumulati negli anni. Una boccata di ossigeno finanziario per il governo di Nicolás Maduro, indebitato con creditori esteri per 150 miliardi di dollari, la maggior parte dei quali dovuti alla Cina.
Perché tanta disponibilità da parte di Mosca? Perché offrendo sostegno economico al boccheggiante Maduro, il presidente Vladimir Putin aiuta se stesso. La Russia, insieme alla Cina, si sta assicurando l’economia venezuelana e il petrolio di Pdvsa è il suo principale obiettivo. Ma è un obiettivo proibito. Perché l’impalcatura costituzionale venezuelana blinda la struttura pubblica dell’impresa statale del petrolio. Spiega Roland Denis, ex viceministro della pianificazione degli albori del chavismo e da anni ormai critico feroce del regime venezuelano: «Mettere a tacere il parlamento, controllato dall’opposizione, per eliminare l’ostacolo a iniezioni di cash russo, è uno degli obiettivi principali di Nicolás Maduro. I russi in cambio di soldi freschi vogliono l’industria del petrolio, affare vietato per legge».