Emmanuel Macron è l’uomo del momento in Francia, con i suoi pochi anni e un’agenda riformatrice, liberale, europeista. Nessuno credeva che questo trentanovenne ex banchiere, ex funzionario dell’Eliseo, ex ministro dell’Economia, nessuna elezione vinta all’attivo potesse diventare la chance di riscatto cui s’appiglia un continente intero. Parlare bene dell’Europa sembra una follia, è stata una follia per anni e anni, ma oggi Macron, con quel suo viso affilato, è diventato «un patriota europeo», come scrivono i giornali francesi, il guardiano di un ordine che, tra Brexit e Donald Trump, sembrava destinato al collasso. L’Europa ci protegge, ripete Macron, con uno slancio degno di settant’anni fa, quando ancora il progetto europeo non aveva illuso e disilluso i cittadini: ai comizi ci sono tante bandiere blu con le stelle dorate, e anche nel quartier generale del candidato di En marche! e nei banchetti che stanno riempiendo tutta la Francia sventolano gloriose. Questo alimenta le attese di tutto il continente che va a caccia di una buona notizia e anche di una nuova occasione, magari la possibilità di federare nuove ed effervescenti forze neoeuropeiste come prima risposta collettiva al neonazionalismo.
Il problema è che da un anno a questa parte le illusioni di élite e media sono state molte ed esagerate, e oggi l’azzardo è un lusso difficile da concedersi. Sarà un’altra bolla, Macron? Questa è la domanda che tutti si fanno a Parigi. C’è chi vuole credere in questa esperienza unica e rivoluzionaria: En Marche!, il partito di Macron, fino al settembre scorso era più un vezzo che una alternativa strategica. Macron era ancora ministro dell’economia e decise di fare «un’esplorazione» della Francia, con una marcia, per valutare paure e desideri dei cittadini e capire che cosa offrire. Macron voleva di fatto dire ai socialisti: non starò con voi, visto che voi non mi volete (la sua legge sulle liberalizzazioni era stata annacquata in Parlamento in tanti, brutali scontri personali e ideologici). Invece ora, con la sua naturale e informale improvvisazione, è alle prese con una missione grandiosa, quasi impossibile: costruire dal nulla una nuova classe politica. Se dovesse riuscirci, Macron diventerebbe immediatamente un modello da imitare, e anzi un po’ lo è già vedendo le delegazioni di partiti europeisti che vanno a guardare com’è e come funziona il quartier generale di En Marche!.
C’è però chi resta scettico perché la proposta macroniana è sì sorprendentemente popolare, ma non rappresenta lo spirito prevalente nel Paese. La scorsa settimana c’è stato un dibattito televisivo con tutti i candidati, anche quelli minori, undici persone sul palco in prevalenza convinte che il destino francese sia slegato dal resto del continente, che l’Europa sia un fardello di cui è bene liberarsi in fretta per investire su un ripiegamento. Questo è il clima francese, checché ne dicano gli «insurgent» liberali che sostengono il contrario, sicuri che questo sia il momento della verità per i francesi, e che non ci saranno troppe sbavature. Sfogliando i giornali, ascoltando i commentatori, rileggendo quel libro-sensazione del giovanissimo Edouard Louis che racconta la sua adolescenza disagiata e l’elettorato di Marine Le Pen (s’intitola Storia della violenza), l’insofferenza si può toccare con le mani, è nei dati di un’economia asfittica, è nei calcoli di una classe politica tradizionale poco ammirevole, è nella paura del terrorismo e del diverso.
Il nazionalismo ha, in tutta Europa, radici antiche e ragioni diverse, ma finisce per esprimersi nello stesso modo, con un ripiegamento rabbioso, in cui tutto l’esistente pare soltanto creato per generare diseguaglianze e perpetrare inefficienze. La Francia non fa eccezione, anzi: il Front national di Marine Le Pen oggi si culla nella certezza – per quanto di certo non ci sia mai nulla – di arrivare al secondo turno delle presidenziali. I paragoni con il 2002, l’anno in cui il padre di Marine si giocò al secondo turno la presidenza contro Jacques Chirac, non reggono. Allora la qualificazione del Front fu una sorpresa agghiacciante, la scoperta che le divisioni nella sinistra francese avevano creato un vuoto talmente grande da permettere a una forza estrema di riempirlo: il fronte repubblicano anti Le Pen si creò in due settimane, solidissimo, e anche se tuttora molti a sinistra dicono sconsolati «ho dovuto votare per Chirac, sono pronto a tutto», il sollievo allora fu grande.
Oggi la Le Pen è una forza consolidata, e anzi, a ogni dibattito tv è sempre più evidente che lei non viene considerata come un corpo estraneo, come una intrusa, tutt’al contrario: è un candidato come un altro. Questa normalizzazione – che è il grande successo di Marine, per quanto la base storica storca il naso – permette al Front national di essere la forza numero uno da sfidare e gli concede anche l’onore di stabilire che dimensione può avere la vittoria. Se Marine Le Pen supera il 30/32 per cento al primo turno, il suo successo sarebbe grandioso (i suoi attivisti dicono scherzando, ma nemmeno troppo, che si vince già al primo turno, 50,1 per cento e arrivederci tra cinque anni) e la formazione di un fronte a lei contrario diventerebbe immediatamente emergenza.
Anche questo infatti è cambiato dal 2002: c’è oggi un candidato in grado di creare un’alleanza anti Le Pen? Ce n’era uno naturale, ed era François Fillon, candidato dei Républicains, ma la sua campagna elettorale è stata un disastro. Molti scandali, l’immagine deteriorata di un leader attaccato al denaro e al potere, un elettorato anziano, poca mobilitazione: questi sono gli ingredienti del collasso di Fillon, secondo quanto rilevano i sondaggi. Ma se è vero che non c’è nessuno che creda ancora nelle possibilità di Fillon, è anche possibile che questo crollo sia oggi sovrastimato: l’elettorato gollista, in Francia, ha una storia molto solida e molto antica, e anche se il candidato è debole, l’appartenza politica è un dato di fatto nelle abitudini del Paese. Se si guardano i trend dei sondaggi, si vede che l’intenzione di voto nei confronti di Fillon è costante, non in crescita naturalmente, ma resiliente. E questo non accade con nessun altro dei candidati, che anzi presentano una grande volatilità. Questo significa che un conto è dire chi si voterebbe, un altro è andare davvero a votare, e con i tassi di astensionismo che si sono registrati da ultimo e una campagna elettorale per i partiti tradizionali molto deludente, il rischio sorprese, al primo turno del 23 aprile, resta alto. Ma ci sono conseguenze anche per il secondo turno del 7 maggio, perché la costruzione di uno slancio in due settimane non è mai facile, figurarsi se si arriva dopo una conta lunga di inefficienze e delusioni. E soprattutto se si arriva con un candidato naturale come Fillon forse escluso.
L’occasione di Macron è tutta qui, nella capacità di attrazione nei confronti di forze a oggi aliene. En Marche! è una compagine che nasce già ora con l’intento di creare un argine contro il Front national: attira sostegno sia a destra sia a sinistra, con una prevalenza di quest’ultima; propone un messaggio unificante ed europeista; si fonda su una mobilitazione straordinaria. Ma questo non basta. I timori sull’inconsistenza di Macron aumentano all’avvicinarsi del voto, complice anche l’ascesa del candidato della sinistra radicale, Jean-Luc Mélenchon, che è in tutto e per tutto l’anti Macron. Con il Partito socialista ridotto ai minimi termini (alcuni consigliano di non sottovalutare nemmeno il Ps, ma sembrano poco credibili), il leader del partito France insoumise è diventato la star della sinistra almeno per quelli che non riescono a digerire il cosiddetto «ubercapitalismo» di Macron. E l’analisi migliore di quel che sta accadendo adesso l’ha fatta proprio Mélenchon, quando dice che lui e Macron sono i prodotti naturali della crisi della sinistra, uno radicale e uno centrista, vinca il migliore.
Il problema però non è tanto l’offerta politica che è estremamente variegata: il problema per l’elettorato francese – e per gli osservatori europei, che puntano tutto sulla Francia – è fidarsi dell’ignoto, che sia la candidata di una destra xenofoba con su un po’ di belletto, o il candidato debolissimo di una destra tradizionale e invecchiata o una vecchia volpe della sinistra-sinistra o un ragazzo giovane, con l’aria determinata che non accetta nemmeno di essere definito «centrista». E per un paese che da sempre è accusato di immobilismo questa è molto più di una scommessa in un anno un po’ pazzo di primavera elettorale.