L’Argentina si prepara alle legislative del 22 ottobre spaccata a metà. Il voto, che arriva a metà del mandato quadriennale del governo e serve a rinnovare la maggioranza degli scranni del Congresso, è tradizionalmente nella politica argentina un test fondamentale per valutare la tenuta del presidente in carica. Questa volta le primarie tra partiti svoltesi un mese fa annunciano un appuntamento elettorale al cardiopalma.
Tra il presidente Mauricio Macri (destra liberal) e la sua diretta rivale, l’ex presidente neo peronista Cristina Kirchner, candidata al Senato, si gioca una sfida per mostrare chi ha in mano la maggioranza del Paese.
Al momento i due risultano in grado di contendersi il territorio palmo a palmo. Nelle primarie tra partiti del mese scorso Macri ha ottenuto, in numeri assoluti, una quantità di voti maggiori a quella che l’ha eletto due anni fa a capo del governo. Ma non ha raggiunto il 50%, sfiora il 36% del totale. Si trova a contrastare una opposizione frammentata, non ancora riunita dietro la guida di Cristina Kirchner, che i sondaggi davano in grande vantaggio e che è invece rimontata sì, ma non abbastanza da sorpassare Macri. Il presidente è uscito vincente dalle primarie perché non solo ha stravinto nelle grandi città, cominciando da Buenos Aires e Cordoba, ma ha espugnato al kirchnerismo alcuni suoi territori chiave, come la patagonica Santa Cruz, culla politica dei Kirchner. Tanto felice appare Macri che comincia a parlare apertamente della possibilità di essere rieletto alla Casa Rosada tra due anni.
Un progetto considerato irrealistico fino al mese scorso. Il costo sociale ed economico delle misure prese dal suo governo è stato molto alto per le fasce medie e medio basse della popolazione, ossia per la stragrande maggioranza del Paese. La brusca svalutazione della moneta nazionale, ovvia conseguenza della fine dell’insostenibile cambio fisso con il dollaro, ha scatenato i prezzi producendo un’inflazione (la più alta degli ultimi quindici anni) priva di qualsiasi compensazione salariale. Ci sono stati licenziamenti di massa nel pubblico e nel privato. La fine delle sovvenzioni pubbliche ai consumi di elettricità e gas ha fatto aumentare le bollette di luce e gas fino al 300%. Quando il costo della vita schizza in alto improvvisamente, senza un adeguamento dei salari medi, di solito ci si aspetta una rivolta sociale. Invece, sorpresa: le piazze si sono sì riempite spesso di manifestazioni di protesta, ma arrivata l’ora di votare gli argentini non hanno punito il presidente in carica. Anzi. Gli hanno dato ossigeno.
Il governo ora ha l’arduo compito di provare che i sacrifici imposti come necessari, e ricaduti soprattutto sui più fragili economicamente, stanno per dare i loro frutti. E come farà in una società con una percentuale di poverissimi oltre il 35%, con problemi gravi di deficit fiscale finanziato da un indebitamento che aumenta a passo svelto? Macri confida nel circolo virtuoso di un’economia che potrebbe crescere, anche se di poco, conta su un calo del deficit e dell’inflazione. I suoi critici prevedono invece che l’indebitamento potrà solo aumentare e che il deficit e l’inflazione conseguenti spingeranno Buenos Aires nella spirale di una delle sue solite e drammatiche crisi epocali: più debiti, gli interessi sul debito vanno ad aumentare il deficit creando quindi una nuova necessità di finanziarlo, il sistema regge finché i capitali non fuggono spaventati all’estero e tutto crolla di nuovo.
Rimane poi alta la tensione con i sindacati per l’annunciata riforma del mercato del lavoro. Il governo e il presidente sono stati denunciati dalla Asociación de Abogados Laboralistas all’Organizzazione Internazionale del Lavoro. La denuncia imputa al governo di Macri la responsabilità giuridica per la violazione di accordi internazionali in materia di lavoro, a causa degli attacchi nei confronti della Giustizia del Lavoro e dei giuslavoristi, accusati da Macri di vivere di una «industria del processo per cause di lavoro, destinata a distruggere piccole e medie imprese».
È successo che il presidente ha detto: «Basta con la mafia degli avvocati e i giudici ». Una bestemmia nella Buenos Aires eternamente post peronista dove i gruppi sindacali sono 6400, costituiscono la rete più capillare esistente, dotati di controllo minuzioso del territorio, ciascuno con relativa organizzazione, sistema previdenziale di riferimento e preziosi uomini raccatta voti.
Sono mesi che gli imprenditori più liberisti si lamentano con il primo presidente non peronista d’Argentina dopo Raùl Alfonsìn (che però a differenza di Macri era radicale) del potere di ricatto che i sindacati continuano, dicono loro, ad esercitare sul governo. E Macri li ha accontentati, per ora, con una dichiarazione di guerra alla gran quantità di cause di lavoro in corso in Argentina, una ogni cinque lavoratori, 185 mila iniziate nel 2016 nella sola città di Buenos Aires. Aumentate del 20% rispetto all’anno precedente. Il dato è l’ovvia conseguenza dell’ondata di licenziamenti dovuta alle ristrutturazioni nel pubblico e nel privato. Macri ha messo mano alla crisi economica argentina senza i «metodi keynesiani» rivendicati dal governo Kirchner.
Gli imprenditori argentini temono ora di pagare cari i licenziamenti perché è molto, ma molto difficile a Buenos Aires che una causa di lavoro contro un’azienda non si concluda in favore del lavoratore. Colpa della cultura peronista e della mole di leggi ideologicamente schierate dalla parte del lavoratore ereditate dal generale Peròn, dicono gli imprenditori. Colpa dell’ideologia di sfruttamento che permea la cultura d’impresa argentina e che è diventata legge prima con il regime militare poi negli anni Novanta con la presidenza di Carlos Menem, dicono i sindacati. Fatto sta che il riacutizzarsi dell’eterno conflitto, sta portando alla ribalta la legge brasiliana su flessibilità del lavoro e la revisione del sistema pensionistico la cui discussione ha messo a ferro e fuoco Brasilia.
Non c’è giorno che tv e giornali argentini non esaminino con la lente d’ingrandimento la legge proposta dal barcollante governo di Michel Temer in Brasile. Ogni passaggio di quel pacchetto di norme è discusso e osservato a Buenos Aires con l’attenzione e la rissa tra parti opposte solitamente riservati solo al grande classico calcistico Boca-River.
Difficile sarà per Macri fare sue le proposte ultraliberiste della destra brasiliana, se vuol essere rieletto. «Flexibilidad laboral» è un’espressione impronunciabile in Argentina. Evoca oceaniche manifestazioni contrarie, scioperi generali ad oltranza e, soprattutto, «cortes de ruta» quotidiani, quelle interruzioni delle strade del Paese in cui i sindacati argentini sono grandi professionisti.
Per impedirle, l’esperienza dimostra che serve solo la contrattazione politica. A meno di voler mandare tutti i giorni in strada la polizia, che non è mai una buona idea nella assai conflittuale Buenos Aires.