Ma Trump non uscirà mai di scena

Stati Uniti – Un’opposizione ostruzionista potrà rendere difficile la vita a Biden che sta cercando ancora di capire questa vittoria dimezzata
/ 30.11.2020
di Federico Rampini

Da una parte c’è un Joe Biden già «presidenziale»: parla alla nazione facendosi carico di tutte le emergenze, usa il linguaggio della responsabilità, cerca di ricucire le ferite dopo una campagna elettorale velenosa. Dall’altra c’è Donald Trump che si rassegna al passaggio delle consegne ma non alla sconfitta: continua a parlare ai suoi di «elezione truccata, vittoria rubata con le frodi». Una maggioranza della base repubblicana gli crede. Fox News, la tv di destra di Rupert Murdoch che molla Trump e accetta il verdetto delle urne, sta pagando un prezzo: una parte del popolo di destra ha cominciato a trasmigrare verso altre reti tv, ancora più estremiste.
 
Un tasso di paranoia è sempre esistito nella politica americana: ricordiamo le teorie del complotto che fiorirono sull’assassinio di John Kennedy nel 1963, quando non esisteva Internet. Le dietrologie deliranti non sono un monopolio della destra: la sinistra filo-araba nel mondo intero credette ogni sorta di idiozie sull’attacco dell’11 settembre «orchestrato da Cia e Mossad». Anche di fronte al Coronavirus, esiste un movimento anti-vax di sinistra che farnetica sui complotti di Big Pharma ignorando che i vaccini non sono mai stati un vero business per le multinazionali farmaceutiche. Però nei prossimi quattro anni il problema con cui Biden dovrà misurarsi sarà questo: quante fake news inventerà Trump per delegittimarlo, per logorarlo, per costruire forse il trampolino di lancio di una ricandidatura nel 2024?

«Ci aspetta un duro inverno. Siamo in guerra contro un virus, non fra di noi». È all’insegna dell’emergenza e dell’unità nazionale, il primo appello-Covid di Joe Biden alla nazione da quando il passaggio dei poteri è avviato. L’allerta Covid è ai massimi, le autorità sanitarie temono che dopo i raduni familiari nella festività arrivi una terza ondata dalle conseguenze catastrofiche, mentre in alcuni Stati Usa il sistema ospedaliero è di nuovo vicino ai livelli di saturazione. Intanto il presidente-eletto designa i suoi futuri ministri a gran velocità, e la scelta di quei nomi già rivela cosa sarà l’agenda di governo dei suoi primi cento giorni.

Covid: «La pandemia 24 ore su 24 e 7 giorni su 7», così uno dei più stretti consiglieri sanitari di Biden illustra la priorità assoluta. La task force che Biden ha assemblato su questo fronte sta già preparando i piani di distribuzione dei vaccini. L’America ha una buona tradizione in questo campo, quest’anno il vaccino influenza è partito in anticipo, ai primi di settembre, la sua distribuzione è stata veloce e capillare. Per il Covid bisognerà fare ancora meglio, superando le inevitabili complicazioni di una sanità molto segmentata (da Stato a Stato; fra pubblico e privato). La gratuità era già assicurata dall’Amministrazione Trump ma è sui tempi di distribuzione che Biden vuol fare la differenza subito.

Disoccupazione. Janet Yellen, designata per il Tesoro, prepara la trattativa più urgente e più ardua: con la maggioranza repubblicana al Senato, per sbloccare una nuova manovra di spesa pubblica che aiuti famiglie e imprese. Biden però spera di riuscire a bruciare i tempi: convincendo il Congresso a dibattere e varare quella manovra ancora prima del suo insediamento. Per questo chiede ai democratici di pagare un prezzo, accettando una manovra più piccola rispetto alle promesse di 2000 miliardi di dollari. Per un sollievo immediato ai disoccupati (11 milioni), anche 500 miliardi potrebbero bastare, se è il prezzo da pagare per il sì dei repubblicani. Poi da gennaio bisognerà tappare i buchi della finanza locale: una città come New York da sola ha speso più di 5 miliardi per aiuti d’emergenza.

Rapporti con la destra. «Voglio almeno un elettore di Donald Trump nella mia squadra», dice Biden. Cioè almeno un ministro repubblicano. Biden ha bisogno della collaborazione di tutti e per questo offre un ramoscello d’ulivo al rivale sconfitto: «Non ho l’intenzione di usare il Dipartimento di Giustizia per perseguirlo». Una mossa tanto generosa quanto controversa, soprattutto nell’ala più radicale e giustizialista dei democratici. Biden deve navigare tra scogli insidiosi. Cooptare qualche repubblicano al governo, in questo clima rischia di bruciarlo come un traditore agli occhi dei suoi; e di eccitare i sospetti dell’ala sinistra su un esecutivo sempre più moderato.

Politica estera. In realtà è al primo posto nell’attenzione di Biden se si giudica dal numero di nomine annunciate in tempi-record: Anthony Blinken segretario di Stato, Jake Sullivan National Security Adviser, Avril Haines direttrice della National Intelligence, Linda Thomas-Greenfield ambasciatrice all’Onu. È il ritorno della «vecchia squadra», un mix di fedelissimi di Biden con qualche prestito da Clinton e Obama. Talmente collaudati, da far parlare di restaurazione dell’Ancien Régime. Ottima cosa per l’Europa. Blinken ha già usato due parole chiave: «Umiltà e fedeltà verso gli alleati». Gli europei saranno corteggiati da subito, anche per contenere la Cina e la Russia.

Ambiente. L’ex segretario di Stato di Barack Obama, John Kerry, fu il negoziatore degli accordi di Parigi per la lotta al cambiamento climatico. Come ambasciatore plenipotenziario di Biden rilancerà l’impegno dell’America su questo fronte: nel mondo intero ma anche a casa propria. Sarà membro del National Security Council a riprova dell’importanza strategica di questa battaglia. La svolta ambientalista produce già conseguenze: la General Motors volta le spalle a Trump e si ritira da una causa legale contro le norme anti-emissioni della California. Sull’ambiente Biden agirà fin dalle prime cento ore, senza aspettare i cento giorni. Non c’è solo il gesto simbolico del rientro negli accordi di Parigi, che sarà tra i primi atti del nuovo presidente, forse nello stesso Inauguration Day (20 gennaio). Buona parte della deregulation che Trump varò a favore dell’energia fossile fu attuata con ordini esecutivi, senza passare dal Congresso: Biden li cancellerà con un tratto di penna, usando la stessa decretazione d’urgenza.

Immigrazione. Il nuovo superministro degli Interni che comanderà la polizia di frontiera e tutto l’Immigration Service è designato nella persona di Alejandro Mayorkas. Il primo ispanico a dirigere la Homeland Security (che include anche l’antiterrorismo). Anche su questo terreno ci sono cose che la nuova Amministrazione farà subito, smontando alcuni editti anti-immigrati di Trump. Rimetterà al bando l’espulsione di giovani immigrati, i cosiddetti Dreamers, arrivati negli Stati Uniti da bambini. Bloccherà la separazione di figli e genitori alla frontiera, o l’uso delle famigerate gabbie per la detenzione (due pratiche che peraltro risalivano all’Amministrazione Obama-Biden). Ma quando Biden annuncia «amnistia per 11 milioni di clandestini» fa un gesto simbolico privo di conseguenze pratiche. L’amnistia va approvata al Congresso e quindi concordata con i repubblicani. Non accadrà presto.

La più antica democrazia del mondo è stata salvata anche dai repubblicani. Non solo i leader storici, da George Bush a Mitt Romney, che sono scesi in campo per denunciare il sabotaggio di Trump e hanno riconosciuto la legittima vittoria del democratico. Ha contato ancora di più l’impegno civile di personaggi di secondo piano, illustri sconosciuti, dal Michigan alla Pennsylvania. Quando Trump ha scatenato l’offensiva per contestare il risultato, inventando teorie del complotto, brogli e frodi, chiedendo riconteggi e ricalcoli, intimando che fossero invalidate schede regolari, ci sono state due reazioni nel Paese. Nei media progressisti c’è chi ha cominciato a gridare al golpe, ha scelto i toni esagitati, coerenti con l’atteggiamento tenuto negli ultimi quattro anni. Non serve chiedersi se sia utile al Paese, l’urlo costante è utile per eccitare l’audience, quindi per il conto economico dei network televisivi e di qualche giornale.

Nell’America profonda, in quel centro moderato che ancora rappresenta una parte del Paese, l’atteggiamento distruttivo di Trump è stato accolto con irritazione, disgusto, preoccupazione, seguiti dalla mossa più saggia: applicare le regole. Il presidente uscente chieda i controlli che per legge ha il diritto di chiedere. Eseguiamo le verifiche, ricontiamo le schede. Molti repubblicani in posizioni di comando nei singoli Stati hanno fatto così. Hanno assecondato le richieste dello sconfitto, sono andati fino in fondo, per dimostrare nei loro Stati tutto era stato regolare.

Altri danni sono stati inflitti, e non saranno riparati facilmente. Trump non esce di scena, cercherà rivincite. Vorrà essere lui il capo di un’opposizione durissima, selvaggia. Una parte degli eletti del partito repubblicano temono la sua popolarità nella base: ogni senatore che ha un seggio in scadenza tra due anni potrà essere scalzato in una primaria di partito da un candidato più trumpiano. Un’opposizione ostruzionista può rendere la vita difficile a Biden. Il partito democratico a sua volta sta appena tentando di avviare un’analisi di questa vittoria dimezzata, o mezza sconfitta. Ha regalato il mondo del lavoro alla destra, pur migliorando i suoi risultati tra i laureati.

L’alibi più comodo per non fare i conti con questo spostamento sociale è accusare di razzismo gli operai che hanno rivotato Trump. Ma molti di loro avevano votato per Barack Obama. Ispanici, neri, anche in queste minoranze i risultati di Biden sono stati inferiori alle attese, talvolta peggiori della Clinton quattro anni fa. La spiegazione secondo cui operai, ex-immigrati, afroamericani che hanno scelto la destra «votano contro i propri interessi», è tipica delle élite che vivono nelle loro bolle autoreferenziali. Delegittimare 70 milioni di elettori di Trump, condannarli moralmente come razzisti, disprezzarli perché troppo ignoranti, non prelude al ritorno di un dialogo pacato tra le due anime del Paese.