L’utopia dell’Ucraina Verde

Lo Stato fondato dai migranti in Siberia fu invaso dai bolscevichi
/ 03.07.2023
di Alfredo Venturi

La guerra attualmente in corso fra Ucraina e Russia ha un lontano precedente, sia pure su una scala molto più ridotta rispetto al sanguinosissimo conflitto che occupa le cronache dei nostri giorni. Per rivisitarlo occorre spostare lo sguardo dall’altra parte del globo, distogliendolo dal Mar Nero e focalizzandolo sull’Oceano Pacifico. Quel confronto si realizzò infatti in un contesto geografico del tutto diverso, in una frazione della gigantesca Siberia al suo estremo limite orientale. La chiamavano Ucraina Verde, si trovava su quei territori solcati dal fiume Amur e bagnati dall’Oceano Pacifico che erano stati area di occupazione giapponese e i cinesi chiamavano e chiamano Manciuria esterna.

La popolazione comprendeva diverse centinaia di migliaia di ucraini e cosacchi, discendenti degli emigranti affluiti in Siberia fin dall’Ottocento, quando il Governo zarista desideroso di sbarazzarsene incoraggiava il trasferimento offrendo il trasporto a chi volesse rifarsi una vita laggiù. Fu così che un giorno di maggio del 1920, mentre l’ex impero era squassato dagli ultimi sussulti della guerra civile seguita alla rivoluzione d’ottobre del 1917, l’Ucraina Verde divenne una Repubblica indipendente con capitale Nikolaevsk, una piccola città sull’Amur poco a monte del grande estuario nel mare di Ochotsk. La nuova creatura politica confinava a sud con i territori che attualmente appartengono alla Repubblica popolare cinese e alla Corea del Nord.

Era uno Stato dichiaratamente secessionista, non a caso si opponeva decisamente alla Repubblica bolscevica dell’Estremo Oriente, e immediatamente fu qualificato come controrivoluzionario dai nuovi detentori del potere a San Pietroburgo. Nessun compromesso fu considerato praticabile, il neonato regime comunista doveva garantire la continuità dell’immenso Paese che dall’Europa arrivava al Pacifico. Una continuità e una dimensione perfettamente rappresentate dalla ferrovia transiberiana che con il suo percorso di oltre novemila chilometri aveva stupito i visitatori dell’Expo parigina dove fu presentata nel 1900. Inoltre, il trionfo proletario imponeva che quel pezzo di «Russia bianca» andasse eliminato. Fatto sta che nell’ottobre del 1922, cinque anni dopo la grande rivoluzione, le truppe bolsceviche ebbero la meglio e l’Ucraina Verde tornò a essere nient’altro che un sogno irrealizzato.

Fu lo stesso destino toccato negli anni della rivoluzione alla Repubblica popolare ucraina con capitale Kiev, che per qualche tempo si contrappose all’Ucraina sovietica con capitale Kharkov. O infine alla Repubblica nazionale dell’Ucraina occidentale, provvisoriamente fondata sui territori che erano appartenuti all’impero austro-ungarico e che presto saranno spartiti fra gli Stati confinanti. La storia in quegli anni camminava in fretta lungo una strada grondante sangue, per esempio sarà particolarmente dura la vita nell’Ucraina sovietica. Sarà dura in particolare all’inizio degli anni Trenta, quando la collettivizzazione delle produzioni agricole imposta dal regime staliniano produsse la tragedia passata alla storia con il nome di Holodomor: una carestia che uccise quattro milioni di persone nella sola Ucraina.

A parte il caso dello Stato fondato dai migranti all’estremità sudorientale della Siberia, sono la storia e la geografia a spiegare la volatilità dei confini ucraini. Infatti, l’identità di questi popoli si disperde fra una quantità di etnie e gruppi linguistici. Non soltanto ucraini e russi ma anche cosacchi, ruteni, lituani, polacchi, ebrei. Per un lungo periodo quella che oggi chiamiamo Ucraina fu uno Stato cosacco governato dagli Etmani, i capi tradizionali. Fu Caterina la Grande a eliminare la superstite autonomia del cosiddetto Etmanato. Da allora cominciarono i guai: il regime zarista temeva che la cultura ucraina potesse insidiare la compattezza dell’impero, e dunque si accanì contro la lingua vietando le pubblicazioni in ucraino. Al tempo stesso favorì l’esodo di tutti coloro che fossero disposti ad andarsene. All’inizio dell’era rivoluzionaria il malumore tendenzialmente secessionista degli ucraini fu in qualche misura temperato dalla larga autonomia attribuita alle Repubbliche sovietiche. Ma lo spirito federalista di Lenin fu contraddetto da Stalin, portatore di una visione egemonica dettata da una nuova formula: «Il socialismo in un solo Paese». La diffusione rivoluzionaria del verbo comunista propugnata da Lenin aveva ceduto il passo alla necessità di costruire un’entità statale forte e compatta, capace di garantire con la sua solidità ogni possibile proiezione ideologica oltre le frontiere. Inoltre l’ortodossia collettivista e il furore ideologico con cui fu realizzata degenerarono presto in sanguinose repressioni, di cui la grande carestia ucraina non fu che un esempio. Era il tempo delle purghe, come furono battezzate ai tempi di Stalin.

Anche l’esperienza siberiana del­l’Ucraina Verde fu prevalentemente un fenomeno di contrapposizione ideologica. Da una parte i rigidi assertori della verità bolscevica che non ammetteva compromessi nella sua «marcia verso il futuro», dall’altra i discendenti dei migranti di cui si era premurosamente liberata la Russia zarista, portatori di istanze del tutto diverse e soprattutto desiderosi di vivere la loro avventura liberi dai condizionamenti di lontani e ostili centri di potere. Ma c’era di mezzo la compattezza territoriale del nuovo immenso Stato uscito dalla rivoluzione. I paralizzanti rapporti di forza fecero il resto, e dunque le aspirazioni dell’Ucraina Verde rimasero una delle tante gestazioni abortite di cui è disseminata la storia.