L’utopia del disarmo

Trattati nucleari – Mentre la Corea del Nord lancia le sue minacce nucleari sfidando il mondo intero, il Vaticano chiama una dozzina di premi Nobel a perorare la causa del disarmo. Persa ormai?
/ 20.11.2017
di Alfredo Venturi

Un mondo senza armi atomiche non è un’utopia, dice papa Francesco. Sarà, ma certo a un’utopia assomiglia molto, visto che ormai da mezzo secolo si discute invano, o quasi, di disarmo nucleare. È vero che qualche progresso è stato fatto, per esempio nel 2001 l’accordo START per la riduzione delle armi strategiche (Strategic Arms Reduction Treaty), concordato dieci anni prima da Stati Uniti e Unione Sovietica, raggiunse un importante obiettivo. Grazie a quel trattato i due arsenali nucleari erano stati ridotti dei quattro quinti. Un successo oscurato dal fatto che le armi residue erano più che sufficienti per fare del nostro pianeta un ciottolo incandescente vagante nello spazio senza più ombra di vita. Eppure proprio questa prospettiva aveva salvato la pace negli anni della Guerra fredda. Si parlava di MAD, mutual assured destruction, distruzione reciproca garantita: la garanzia consisteva nel fatto che chi avesse fatto la prima mossa, lanciando l’attacco atomico, poteva essere certo che la risposta, affidata alle armi sopravvissute al primo colpo, sarebbe stata altrettanto devastante. Non a caso la sigla, letta come parola inglese, richiama la follia, quella stessa che un vignettista rappresentò efficacemente disegnando un pianeta irto di missili come un puntaspilli.

Dunque il risultato del 2001 non poteva bastare, e così Stati Uniti e Russia, erede quest’ultima della superpotenza sovietica, ripresero a trattare. Ci vollero altri nove anni perché i negoziatori raggiungessero, dopo una serie di passi intermedi quali lo START 2 e il SORT (Strategic Offensive Reductions Treaty) un nuovo accordo denominato New START. Il 7 aprile del 2010, in un salone del castello di Praga, lo firmarono il presidente americano Barack Obama e il russo Dimitri Medvedev. Si parlò di intesa storica, effettivamente il trattato faceva compiere al disarmo nucleare un altro passo avanti. Prevedeva che entro un decennio le due superpotenze avrebbero ridotto i loro arsenali fino a un tetto di 1550 testate atomiche e settecento fra missili balistici intercontinentali e bombardieri strategici.

Ancora una volta il successo diplomatico era offuscato dalla catastrofica potenzialità degli ordigni che sarebbero rimasti a disposizione, mentre l’equilibrio garantito dall’accordo, impegnando soltanto i due grandi, non eliminava il rischio della guerra nucleare scatenata da altri. Per di più il riacutizzarsi delle tensioni fra Mosca e Occidente ha portato negli anni più recenti a un allentamento della sensibilità al tema del disarmo atomico.

I tentativi di fermare la corsa alle armi più devastanti della storia erano cominciati già negli anni Sessanta. Ancora era vivo il ricordo delle stragi di Hiroshima e Nagasaki, le potenze nucleari stavano sperimentando nei deserti, sugli atolli oceanici e nel sottosuolo, incuranti dei disastrosi effetti sull’ambiente, ordigni sempre più sofisticati. Nel 1970 entrava in vigore il trattato di non proliferazione che impegnava i paesi non nucleari a rimanere tali e ad accettare ispezioni internazionali, mentre le potenze atomiche promettevano di non cedere ad altri tecnologia, assistenza e materiali. 

Nel 1972 Stati Uniti e Unione Sovietica chiudevano il negoziato SALT (Strategic Arms Limitation Talks), con un accordo che bloccava la costruzione di missili intercontinentali. Nel ’79 questo trattato veniva sostituito dal SALT 2, che poneva ulteriori limiti alla dotazione di missili. Successivamente la diplomazia del disarmo fece un significativo passo avanti passando dall’ottica della limitazione a quella della riduzione. Il primo START viene firmato nel ’91 e ratificato tre anni più tardi. E finalmente il New START, firmato da Obama e Medvedev, entrato in vigore nel 2011, destinato a durare fino al 2021. Tutti questi strumenti diplomatici furono negoziati a Ginevra, in un’atmosfera ovattata in cui gli incontri ufficiali si alternavano a contatti informali a volte decisivi. Come quello che vide il negoziatore americano Paul Nitze e la sua controparte sovietica Nikolai Ogarkov discutere animatamente ma amichevolmente passeggiando in un boschetto sulle sponde del lago.

Seguendo questa vicenda diplomatica si poteva registrare una curiosità linguistica che pareva sottolineare la difficile comunicabilità fra le parti. Russi e americani non concordavano nemmeno nel nominare l’oggetto del contendere. Parlando di missili i negoziatori degli Stati Uniti dicevano ’misails, pronunciando la parola all’americana. Ma i diplomatici russi e i loro interpreti, che evidentemente avevano appreso la lingua da severi custodi del Queen’s English, rispondevano ’misls. Sembrava che parlassero di cose diverse. E intanto quegli apocalittici razzi carichi di testate nucleari, ’misails o ’misls che fossero, dormivano nei loro silos o a bordo dei sottomarini strategici, programmati per scatenare la loro devastante energia su bersagli ben definiti in territorio nemico, in attesa di un accordo che almeno ne sfoltisse il numero. L’accordo arrivò in più fasi, frutto di estenuanti trattative in cui l’aspetto tecnico veniva spesso sovrastato da variabili politiche, in particolare dai tumultuosi avvenimenti che portarono alla trasformazione prima, poi al collasso dell’Unione Sovietica. Il processo coinvolse cinque presidenti americani da Reagan a Clinton, dai due Bush a Obama, e quattro sovietici o russi da Gorbaciov a Eltsin, da Medvedev a Putin.

Secondo dati approssimativi esistono oggi nel mondo più di ventimila ordigni nucleari. La maggior parte negli arsenali di Stati Uniti e Russia. Un altro migliaio fra Cina, Regno Unito, Francia, Israele, India, Pakistan e Corea del nord. Ma molto materiale atomico potrebbe essere sfuggito ai controlli, soprattutto in seguito alle convulsioni che all’inizio degli anni Novanta hanno accompagnato la dissoluzione dell’Unione Sovietica. E così fra le tante piacevolezze del nostro tempo ecco aggirarsi per il mondo lo spettro del terrorismo nucleare. Lo rende ancora più credibile il fatto che sono all’opera decine, centinaia di emuli del Dottor Stranamore. Ormai da anni si lavora alla miniaturizzazione di queste armi. Di qui un incubo supplementare fra i tanti che ci assillano: chi ci difenderà dall’atomica tascabile? Quanto al collasso sovietico, ha dato il via a una nuova percezione della questione nucleare. Dopo l’ingresso nella Nato degli ex-satelliti dell’Europa centro-orientale e delle repubbliche baltiche, e dopo l’irrigidimento dei rapporti in seguito alla crisi ucraina, la Russia di Vladimir Putin si sente accerchiata e annuncia una nuova corsa al riarmo. Altro che «fine della storia», e del resto l’America a trazione trumpiana non sembra certo la più incline a politiche conciliatorie e pacificanti.

Mentre la piccola Sparta coreana sperimenta missili e cariche, anche all’idrogeno, sfidando gli Stati Uniti e il mondo intero, il Vaticano chiama una dozzina di Premi Nobel a perorare la causa del disarmo. Ma nonostante l’auspicio del papa l’invito a svuotare gli arsenali e riempire i granai appare una generosa utopia. A tutt’oggi, dopo tante belle parole, esiste al mondo una sola potenza ex-nucleare, che cioè dopo essersi armata con ordigni atomici ha deciso di sbarazzarsene. È il Sud Africa, che dopo la fine del regime di segregazione razziale, sotto l’influsso della personalità di Nelson Mandela, seppe liberarsi delle armi a fissione di cui si era dotato negli anni dell’apartheid, quando l’isolamento internazionale aveva indotto il governo di Pretoria a questa misura che considerava autoprotettiva.

Un esempio che nessun altro fra i paesi nucleari ha seguito, mentre la stessa non proliferazione è minacciata da una tecnologia che rende pericolosamente semplice fabbricare armi atomiche partendo dagli usi pacifici di questa energia. Tipico il caso dell’Iran, che la comunità internazionale ha sospettato d’inseguire l’obiettivo nucleare fino alla recente intesa. Ma se per l’ex-presidente Obama questo sviluppo è un fiore all’occhiello, il bellicoso successore Trump lo considera nient’altro che una resa dell’Occidente al regime degli ayatollah.