Erdoğan in Parlamento ad Ankara (Keystone)


Lupo travestito da agnello

Omicidio Khashoggi – Dietro l’immagine riformista e modernizzatrice che sta cercando di darsi Riad si cela invece un regime autoritario che non tollera e sopprime le voci dissidenti
/ 29.10.2018
di Marcella Emiliani

Dopo 22 giorni dall’assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi avvenuto il 2 ottobre all’interno del consolato del suo Paese a Istanbul, Mohammed bin Salman, l’erede al trono degli al-Saud, mercoledì 24 si è finalmente deciso ad aprire bocca per definire l’omicidio «un crimine odioso» e promettere che i colpevoli saranno catturati e consegnati alla giustizia. Tanto per preparare il terreno a tanta eloquenza, la sera prima aveva fatto diffondere urbi et orbi le foto in cui lui e suo padre, re Salman, ricevevano a corte il giovane Salah, figlio del defunto. Il tutto doveva convincere l’opinione pubblica saudita e quella internazionale che la famiglia Khashoggi non nutriva alcun sospetto e/o risentimento nei confronti dei reali, ma l’espressione non certo rilassata del povero Salah aveva finito per trasformare quell’incontro in un autogol per i Saud. 

Mentre infatti MbS – come viene chiamato confidenzialmente Mohammed bin Salman – rideva a 64 denti come se invece di porger condoglianze stesse rallegrandosi per la nascita di un figlio maschio, Salah aveva dipinto in faccia uno stupore tra l’incredulo e il terrorizzato. A lui nessuno ha ancora torto un capello, ma da quando suo padre nel 2017 si era auto-esiliato negli Stati Uniti e aveva cominciato a scrivere sul «Washington Post», non gli è stato più permesso di uscire dal Paese. In tutti i casi l’intera vicenda delle pubbliche condoglianze sapeva tanto di «teatro» alla siciliana quando cioè si mette in scena una rappresentazione di facciata per mascherare la realtà. E sapeva di teatrino improvvisato anche la prima versione che i sauditi avevano dato dell’omicidio al consolato che parlava di una missione punitiva ai danni di Khashoggi non autorizzata né dall’erede al trono né dai servizi di intelligence sauditi che ne sarebbero stati completamente all’oscuro.

Fatto sta che Mbs ha parlato solo dopo che il 23 ottobre il miglior alleato della monarchia saudita, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, aveva usato appunto un linguaggio teatrale per definire «un totale fiasco» la ricostruzione dell’assassinio resa da Riad e – sempre il 23 ottobre – era già sceso in campo anche il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdoğan per puntare il dito proprio contro chi aveva ordinato a un commando di 15 uomini, arrivati in tre gruppi a Istanbul, di uccidere Khashoggi con l’aiuto di tre impiegati del consolato per poi farlo sparire. Lì, infatti, il giornalista sarebbe andato a ritirare i documenti per sposarsi con la fidanzata turca. Si era trattato dunque di un atto criminale non solo di selvaggia violenza – aveva accusato Erdoğan – ma anche pianificato fin nel minimo dettaglio, altro che missione sconosciuta alla monarchia e alle sue spie. Il presidente turco aveva poi lanciato un’altra provocazione, «Che fine ha fatto il corpo del giornalista?» ben sapendo che da giorni si vociferava che fosse stato fatto a pezzi, riportato in Arabia Saudita con grosse valige, o addirittura sciolto nell’acido a casa del console. Non aveva chiamato in causa – nome e patronimico – l’erede al trono saudita, ma era implicito che l’ordine fosse arrivato da molto, molto in alto.

Muovere uno squadrone della morte del genere non è alla portata di tutti e, dal canto loro, re Salman e il figlio si erano già decisi in precedenza – il 19 ottobre – ad ammettere che, sì, Khashoggi era effettivamente morto al consolato ma perché implicato in una rissa scoppiata « accidentalmente». Le spie in qualche maniera dovevano comunque essere intervenute se la monarchia aveva provveduto a licenziare su due piedi 18 presunti membri dei servizi segreti definiti «deviati» nonché il vice capo dell’intelligence, il generale Ahmed al-Asiri e il direttore del comitato per il controllo dei media , Saud al Qahtami. Inchieste giornalistiche hanno poi rivelato che Mohammed bin Salman si avvarrebbe di un corpo speciale, la Tiger Squad, incaricata appunto dei «lavori sporchi» tipo eliminare dissidenti e oppositori come ormai era stato etichettato Khashoggi. Se ad opporsi a MbS fosse stato un saudita qualsiasi, per tacitarlo sarebbe bastato un bel rapimento seguito da almeno un decennio di carcere duro con periodica flagellazione. Ma che bisogno c’era di farlo fuori?

Il perché è antico come la Bibbia. Khashoggi non era un giornalista qualsiasi, era un membro dell’élite più dorata del regno, aveva diretto giornali sauditi come «Arab News», «al-Watan», ma soprattutto era stato consigliere mediatico prima a Londra, poi a Washington di un ambasciatore di rango, il principe Turki bin-Faisal ex capo dei servizi segreti del regno. Khashoggi, dunque, era stato percepito dalla famiglia Saud come un Giuda, e il suo allontanarsi dall’Arabia Saudita per poter esprimersi liberamente come un tradimento vero e proprio. Di qui l’insana decisione di farlo fuori e lavare l’onta col sangue. Ma chiunque abbia dato quell’ordine ha reso un pessimo servizio a Mohammed bin Salman e ha fatto invece un grande favore al presidente turco Erdoğan.

MbS da due anni sta cercando di accreditarsi come il modernizzatore del regno e per farlo ha bisogno che vada in porto il suo mega-progetto politico-economico Saudi Arabia’s Vision 2030 destinato ad attrarre investimenti esteri per sganciare l’economia dell’Arabia Saudita dalla «schiavitù» delle entrate petrolifere che prima o poi si esauriranno come le riserve di greggio. Il futuro della monarchia dovrebbe essere affidato all’high tech, al bio, ai servizi e alle rendite finanziarie. Dopo l’orrenda fine di Khashoggi è successo invece che il principe ha cominciato ad essere considerato come un qualsiasi dittatore sanguinario del Medio Oriente e, sul fronte economico, il più importante, sembrano averlo abbandonato alcuni dei big internazionali su cui contava. Quando si è deciso a parlare il 24 ottobre lo ha fatto, non a caso, davanti ai paperoni di mezzo mondo convenuti a Riad per la Future Investment Initiative organizzata dal 23 al 25 e ribattezzata dai media «Davos nel deserto», non solo perché il deserto è appena fuori dalla porta della capitale saudita, ma anche per l’alto numero di diserzioni registrato in segno di protesta per l’assassinio di Khashoggi. Su 150 ospiti in rappresentanza di 140 grandi industrie o realtà bancarie, ben 40 hanno disertato l’appuntamento. Erano persone come la presidente del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde (assente), il segretario al Tesoro americano Steven Mnuchin (assente), banchieri o mega-industriali che MbS voleva rassicurare, non gli attivisti delle associazioni per il rispetto dei diritti umani e civili di cui riempie regolarmente le sue galere e che naturalmente non erano stati invitati.

Che fine farà Vision 2030 è presto per dirlo, ma già prima dell’assassinio di Khashoggi non prometteva granché. Molto dipenderà dai risultati delle indagini sull’omicidio, anche se – non illudiamoci – il business avrà sempre la meglio su tutto. Ma il pilone portante di Vision 2030, la quotazione in borsa del 5% della Saudi Aramco, l’azienda petrolifera statale, nel 2017 cioè solo un anno dopo il suo lancio era sparita dall’orizzonte e oggi non se ne parla quasi più, come non si parla più dei 100 miliardi di dollari che avrebbe dovuto portare nelle casse dello Stato. MbS, in altre parole, con Vision 2030 finora ha collezionato solo mezzi fallimenti. Se a questi aggiungiamo gravi errori come la sanguinosissima guerra contro lo Yemen, il bando inflitto al Qatar, accusato di trescare con l’odiato Iran, e il delitto Khashoggi – se si riuscirà ad imputarglielo, ma già ora ne viene ritenuto comunque responsabile – la credibilità del giovane delfino andrà veramente a picco e con lui anche la credibilità delle sue riforme che finora hanno solo «ritoccato» con qualche lifting estetico gli aspetti più anacronistici del Paese.

Chi invece scalpita per andare all’incasso del leso prestigio dei sauditi è un altro leader che quanto a persecuzione di giornalisti non scherza: il presidentissimo Erdoğan. Con l’affaire Khashoggi l’Arabia Saudita è arrivata a un centimetro dalla rottura con la Turchia. L’unica altra affermazione che è uscita dalla bocca del laconico erede al trono alla Davos nel deserto infatti è stata una rassicurazione sullo stato delle relazioni tra Ankara e Riad, che a suo dire godrebbero di buona salute. Balle. Tra i due Stati è in atto un braccio di ferro direi astioso per l’egemonia sul Medio Oriente sunnita, aggravato dal fatto che la Turchia è rimasta alleata del Qatar e si ostina a sostenere la Fratellanza musulmana (cui apparteneva anche Khashoggi), messa invece fuorilegge da Riad e dagli Emirati arabi uniti come «terrorista» già all’indomani del golpe con cui in Egitto il generale al-Sisi ha bandito e incarcerato il presidente Morsi con tutti i Fratelli.

Ai tempi della Primavera egiziana di piazza Tahrir, Erdoğan aveva investito una montagna di denaro sulla Fratellanza medesima, ma dopo il 2013 aveva perso tutto mentre a guadagnarne era stato MbS che da allora è schierato al fianco del nuovo uomo forte del Cairo. Per non parlare infine del rapporto più che fraterno che la Turchia ha stretto con l’Iran e la Russia sulla Siria praticamente in mano alla trimurti Ankara-Teheran-Mosca, mentre Riad che sosteneva gli oppositori di Bashar al-Assad ha perso su tutta la linea. In altre parole, il gioco tra Arabia Saudita e Turchia dopo l’omicidio Khashoggi si è fatto molto più duro, in balia com’è anche della politica saturnina del vecchio alleato di entrambe: gli Stati Uniti di Trump.