L’unità che viene meno

Covid-19 - Tra la popolazione emerge una certa frustrazione, mentre i casi aumentano e tra le nazioni è in corso una gara al vaccino
/ 24.08.2020
di Luca Beti

Stiamo correndo una maratona. Le autorità ce l’hanno ricordato più volte. Non sono i 100 metri piani, una gara in cui puoi mettere il motore in folle dopo meno di 10 secondi. 42 chilometri sono un’altra cosa: arrivare fino in fondo è spesso una questione di testa perché le gambe, a un certo punto, ti dicono di lasciare perdere, di fermarti. E con l’epidemia di Covid-19 non è molto diverso. Se all’inizio, in marzo e aprile, tutti remavano nella stessa direzione e la popolazione seguiva giudiziosa le raccomandazioni del Consiglio federale, con il passare dei mesi emergono la frustrazione e la stanchezza. Ma non è ancora il momento di disunirsi. Il numero di contagi in Svizzera è aumentato notevolmente nelle ultime settimane. Il 19 giugno, giorno in cui il Consiglio federale ha revocato la situazione straordinaria, si registravano 100 casi al giorno. Attualmente, sono mediamente più di 200. È un’evoluzione che preoccupa, anche se non è paragonabile a quella del picco della pandemia.

Che l’aria sia cambiata, lo si percepisce anche dai toni usati nei commenti e nei forum di discussione online. Di recente, ad essere finito nella bufera è l’Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP), reo di aver commesso alcuni grossolani errori nell’arco di pochi giorni. Prima ha pubblicato delle cifre errate relative al rischio di contagio, poi ha comunicato il decesso di un paziente, che invece si trovava semplicemente in isolamento. Ma questi sono, in ordine di tempo, solo gli ultimi problemi emersi all’interno dell’UFSP, dovuti soprattutto alla raccolta dati, che avviene in parte ancora in maniera manuale. Se i laboratori comunicano il risultato dei test tramite un modulo digitale, medici, ospedali e cantoni trasmettono, quando lo fanno, buona parte delle informazioni tramite fax o e-mail. Sono dati che i collaboratori dell’UFSP devono riportare manualmente nelle statistiche, ciò che accresce il rischio d’errore.

Dopo la pioggia di critiche delle ultime settimane, Sang-II Kim, responsabile della trasformazione digitale presso UFSP, ha detto che si correrà ai ripari, accelerando il processo di digitalizzazione. Per esempio, dalla fine di settembre tutte le informazioni sulle persone risultate positive al test verranno registrate in una nuova banca dati nazionale. Ciò permetterà alla Confederazione e ai Cantoni di avere una visione d’insieme sui fattori di rischio, sui luoghi in cui avvengono i contagi, sull’evoluzione dell’epidemia e di adottare misure adeguate a contenere la diffusione del virus. Sarà necessaria anche una coordinazione tra i Cantoni al fine di evitare provvedimenti e restrizioni a macchia di leopardo, soprattutto dal primo ottobre, da quando sarà nuovamente permesso organizzare eventi con più di 1000 persone.

Ma questa non è certo l’unica sfida con cui sono confrontate le autorità. Il tracciamento dei contagi, una delle misure su cui si basa la strategia per contenere la diffusione del nuovo Coronavirus, si sta trasformando in un’attività estremamente dispendiosa in termini di tempo, personale e denaro. Spesso, i team cantonali responsabili di ricostruire le catene di trasmissione non riescono a risalire al luogo in cui è avvenuto il contagio. È così nel 39% dei casi a Berna, nel canton Argovia la quota è del 43%, mentre a Zurigo è addirittura del 65%. A ciò si aggiunge ora un altro grattacapo. Se finora si riteneva che una persona fosse contagiosa fino a due giorni prima della comparsa dei sintomi della malattia, ora si parla invece di cinque o sei giorni. Infatti, alcuni ricercatori del Politecnico federale di Zurigo (ETH) hanno scoperto un errore di calcolo in uno studio dell’Università di Hong Kong, studio su cui si basava il cosiddetto contact-tracing. Con questi nuovi parametri, la ricostruzione della catena dei contagi rischia di trasformarsi in un’impresa ciclopica e di far lievitare il numero di persone da mettere in quarantena.

Tutto sarebbe più semplice se la SwissCovid, che ora è in grado di interagire con le app antiCovid di Italia, Germania e Austria, fosse usata da almeno il 60% della popolazione. Invece, l’app per smartphone è stata scaricata da uno svizzero su quattro, meno del 15% l’ha attivata sul suo cellulare e solo una persona risultata positiva al test su tre ha inserito il codice per informare coloro con cui ha avuto un contatto ravvicinato (a una distanza inferiore ai 2 metri) per più di 15 minuti. Eppure, al momento, non abbiamo molte altre possibilità per tenere in scacco il nuovo Coronavirus e per evitare una seconda ondata. Infatti, un vaccino non sarà probabilmente disponibile prima della metà del 2021. Stando all’Organizzazione mondiale della sanità, attualmente circa 165 gruppi di ricercatori sono impegnati nello sviluppo di un vaccino e 25 stanno svolgendo test clinici sugli esseri umani. E in attesa dell’anti-Covid, i Paesi puntano milioni sull’uno o sull’altro progetto di ricerca, come se fossero al tavolo della roulette. Tra loro anche la Svizzera che non vuole rimanere a mani vuote in questa gara tra nazioni. La Confederazione ha acquistato preventivamente 4,5 milioni di dosi dall’azienda statunitense Moderna. Il costo dell’operazione, stando a informazioni di stampa, dovrebbe aggirarsi sui 100 milioni di franchi. Per continuare il giro d’acquisti, all’Ufficio federale della salute pubblica rimangono altri 200 milioni, dei 300 stanziati dal Consiglio federale. E così, come durante il momento più drammatico della pandemia quando venivano bloccate le forniture di mascherine alla frontiera, emerge di nuovo un nazionalismo che preoccupa l’OMS. Il suo direttore generale Tedros Ghebreyesus ha ultimamente ricordato che «nessuno è al sicuro finché non sono tutti al sicuro», appellandosi alla solidarietà internazionale. Infatti, a differenza di quella vera, la maratona contro il nuovo Coronavirus la si vince solo assieme.