Quella di Dzemil Hodzic era un’infanzia felice, come quelle di una volta, quando la vita si svolgeva per lo più all’aperto, al riparo dalle regole e dallo sguardo severo dei genitori. Dzemil si divertiva, a Sarajevo, nonostante la guerra e la persecuzione per il fatto di essere bosniaco, nonostante i giochi si svolgessero in strada tra detriti e macerie, nel mirino dei cecchini appostati sul tetto degli edifici che costeggiavano la Sniper Alley. Tutto però cambiò il 3 maggio del 1995 quando, puntando un gruppo di ragazzini che giocavano a tennis e biglie, un cecchino colpì Amel Hodzic, 16 anni, fratello maggiore e unico di Dzemil. Di lui, per molto tempo, a Dzemil restarono solo un ricordo lacerante e due piccole fotografie.
A ventisei anni di distanza Dzemil ha un’altra vita: lavora come video editor per «Al Jazeera English» e vive nel Qatar, ma ogni giorno la vita precedente si affaccia prepotentemente a quella nuova, sotto forma di immagini. Due anni or sono il giornalista ha infatti dato vita a un importante progetto online, Sniper Alley, che permette alla diaspora bosniaca di ritrovare una parte di quelle radici altrimenti perdute per sempre, dapprima a causa della guerra, poi in seguito all’emigrazione. Sniper Alley, che si trova sul web, su Instagram, su Facebook e su Twitter, propone migliaia di scatti realizzati dai più grandi fotoreporter di tutto il mondo durante il crudele assedio di Sarajevo negli anni Novanta.
Dzemil Hodzic, potrebbe raccontarci come e perché ha iniziato il suo progetto?
Per due anni, forse a livello inconscio, continuavo a cercare foto di me stesso o della mia famiglia in internet scandagliando le agenzie fotografiche. Mi sono così reso conto che il nome di alcuni fotografi ricorreva di continuo. Cominciai quindi a salvare alcune fotografie, un po’ perché mi piacevano, oppure perché trovavo un bambino che mi assomigliava. Mi sono così creato un database personale. Un giorno mostrai a un amico alcune delle foto trovate e lui mi suggerì di farne qualcosa, o perlomeno di cominciare a scrivere la mia storia. Io non amo parlare di me stesso, ma soprattutto all’epoca sentivo di non avere una voce, ero timido e arrabbiato, per cui il progetto subì dapprima una battuta d’arresto. Solo alla terza o alla quarta versione del mio scritto decisi di aprire una serie di account, mettendomi in contatto con i fotografi che avevo scoperto online.
L’idea iniziale era di lanciare Sniper Alley nel giorno del 25esimo anniversario dalla morte di mio fratello, il 3 maggio 2019, ma purtroppo vi riuscii solo in agosto. Una volta lanciato il progetto e in possesso della versione finale della mia storia, cominciai a mandarla ai fotografi, chiedendo loro se volessero parteciparvi attraverso l’invio di foto scattate a Sarajevo nel 1995. Oggi, a distanza di due anni, abbiamo 80 gallerie e il progetto continua a crescere. Credo che inconsciamente desiderassi ritrovare uno di quei momenti felici che mi furono tolti all’improvviso: è vero che ho le foto del funerale di mio fratello, ma sogno di possederne anche qualcuna che lo ritragga da vivo.
Come è giunto in possesso delle foto del funerale di Amel?
Al funerale erano presenti sei fotografi, e qualcuno diede quelle fotografie a un membro della mia famiglia. Non avevo mai capito chi le avesse scattate, dunque mi misi alla ricerca della fotografa o del fotografo per parlarci e magari scoprire qualche particolare che mi era sfuggito. Sono riuscito a risalire a tutti e sei i fotografi presenti, scoprendo che in concomitanza con il funerale di mio fratello vi fu anche quello di un soldato. Ciò ha contribuito a dare una prospettiva diversa alle cose.
Non ha paura di rimanere deluso quando riceve nuove fotografie?
Quando ne ricevo di nuove mi sento un po’ come un bambino davanti a una sorpresa, e spero sempre di vedermi o di trovare mio fratello. Non sono triste quando non trovo né me né lui perché questo progetto è pensato anche per le generazioni future. Si tratta di un documento, della testimonianza di un’epoca. Nessuno potrà mai affermare che tutto questo non sia successo. Poco fa accennavo al fatto di non avere una voce, ecco, forse con questo progetto ho creato la mia voce, attraverso cui ora parlo liberamente e dico ciò che penso.
Era presente all’uccisione di suo fratello?
Sì, stavamo giocando con altri ragazzini. Nell’istante in cui Amel fu colpito da un proiettile, sentii che diventavo di colpo adulto, smettendo di essere un bambino da un momento all’altro. Non dimenticherò mai che non piansi, non gridai e non ero spaventato. Mia madre, appena rientrata dal turno di notte all’ospedale di Sarajevo, dove lavorava come infermiera, stava cucinando. La chiamai, presi una coperta per avvolgere mio fratello, chiamammo l’ambulanza e ci precipitammo all’ospedale. Io continuavo a non piangere, non piansi nemmeno al funerale. Fu come se fossi cresciuto in un momento e volessi accertarmi del fatto che ormai ero un adulto. Ho cominciato a piangere solo negli ultimi due anni e mezzo: ogni volta che vedo un bambino in fotografia vedo me stesso e mio fratello. Non riesco a trattenere le lacrime.
Sua madre che ruolo ha nella sua vita e cosa pensa di Sniper Alley?
Mia madre è felice per me. L’anno scorso le feci una lunga intervista in cui mi raccontò anche cose che ancora non sapevo. Durante la guerra lavorava come infermiera, pur non essendovi obbligata e senza percepire alcun salario. Per questo io la vedo come un’eroina: lavorava gratis all’ospedale, fino a 24 ore di fila, poi tornava a casa, faceva i compiti con noi e preparava i pasti. Credo che vi siano molte persone come lei, di cui non si sa nulla, e probabilmente, se non fosse stato per lei e per mio padre morto nel 2016, e per il loro amore, sarei stato perduto. A questo proposito ci tengo ad aggiungere che la maggior parte delle persone che mi contattano sono di sesso femminile. Sto quindi cercando di concentrarmi sulle fotografe, raccogliendo più materiale possibile, per realizzare una sorta di omaggio. Credo che l’approccio femminile al reportage sia completamente diverso. Ogni volta che incontro giornaliste, corrispondenti o fotografe, in loro vedo mia madre, riconosco le guerriere, le combattenti.
Con la distanza del tempo le fotografie assumono un valore diverso?
Nelle foto riconosco le strade e molte altre cose: esse mi aiutano a riavvicinarmi a quel periodo. Si dice che il bambino non conosca la nostalgia, perché non ha nessun passato a cui tornare, perciò la grande nostalgia di noi adulti è rappresentata dall’infanzia. La mia nostalgia personale è rappresentata dal periodo di guerra, che io lo voglia o no, e la mia infanzia terminò nel 1995.
Qual è il suo rapporto con i ricordi di quell’epoca?
I ricordi sono strani e spesso mi chiedo se cancelliamo le cose perché non sono rilevanti o perché fanno male. Di quel periodo ricordo ad esempio vividamente la Coppa del mondo di calcio, la squalifica di Maradona e il rigore sbagliato di Baggio. Eppure non avevamo l’elettricità per guardare le partite in televisione e ci servivamo di un aggregatore fatto in casa con le batterie delle auto. Ma quando morì Amel tutto si fermò: del periodo di guerra che seguì non ho letteralmente alcun ricordo.
Non ricorda nemmeno sensazioni come il terrore o l’incertezza?
Devo essere sincero: per me, bambino di dodici anni, la guerra era perfino divertente. Ricordo una volta che corsi al riparo con un amico perché un cecchino aveva cominciato a spararci. Dissi al mio amico di avere visto i proiettili piovere al suolo, ma lui non ci voleva credere, così ritornammo indietro e ci ritrovammo in uno spazio aperto proprio sotto il cecchino e io riuscii a trovare i proiettili ancora caldi. Era così che ci divertivamo.
Ha riconosciuto molta gente con questo progetto? Quali sono le reazioni?
Ho riconosciuto alcuni bambini. Diverse persone mi contattano privatamente perché si riconoscono. Ricevo anche fotografie che ritraggono i fotografi e così gliele inoltro, creando una serie di nuovi contatti.
Segue dei criteri per quanto riguarda la pubblicazione delle foto?
Per rispetto alle vittime cerco di evitare le foto in cui ci sia troppo sangue, se qualcuno le volesse vedere, può contattarmi privatamente. Ogni volta che carico una nuova galleria sul sito web, cerco di pubblicizzarla anche attraverso Facebook, Twitter o Instagram. Questo mi permette di raggiungere un pubblico più vasto. Da una parte ci sono le generazioni più vecchie, dall’altra quelle più giovani e cerco sempre di trovare una sorta di equilibrio tra i diversi social media.
Lei ha dichiarato recentemente che purtroppo non impariamo mai nulla dalle guerre.
Certo, ed è per questo che il mio progetto è rivolto anche alle generazioni future. Volevano cancellarci, ma non ci sono riusciti. Se c’è un’espressione che odio sulla guerra è «never again» (mai più, ndr.) che considero vuota. Credo nel mio progetto perché magari qualcuno può imparare qualcosa, fosse anche solo come gestire determinate situazioni o come preservare la storia e la cultura. Abbiamo l’obbligo di perpetuare la memoria, perché un giorno qualcuno potrebbe sostenere che tutto questo non sia mai successo.
Purtroppo tendiamo sempre a vedere le altre Nazioni come un’entità lontana e diversa da noi, ma poi ci rendiamo conto di essere tutti uguali. La nostra «fortuna» è che dalla Bosnia in quattro anni passarono 240 fotografi, mentre ad esempio in Siria è molto più difficile raggiungere le zone di guerra.
Sono emersi anche aspetti negativi con questo progetto?
Mi arrabbio quando scrivono che ho perso il mio fratello… Io mio fratello non l’ho perso, l’hanno ammazzato. Forse dicendo così mi si vuole proteggere, ma io sono un uomo adulto ormai e non ho bisogno di compassione o di pietà, e quando sento parlare di perdita, è come se si esercitasse una pressione aggiuntiva su di me. I giornalisti balcanici hanno il vizio di chiedermi di continuo se sarei in grado di perdonare, ma per perdonare ci dev’essere qualcuno che si senta colpevole di qualcosa, mentre dall’altra parte c’è ancora un certo orgoglio per quanto fatto. L’estrema Destra ne è fiera e nessuno mi ha chiesto di essere perdonato. Finisce che mi sento di nuovo sotto pressione, perché questo tipo di domande, in base alle mie risposte, porta a un giudizio della mia di personalità, della mia morale. Cerco quindi di dedicarmi al mio progetto e ai miei affetti privati, dando meno spazio possibile all’odio e alla rabbia, ma cercando di rivivere e conservare i sentimenti positivi della nostra infanzia.