L’ultimo colpo di scena (fra mille)

Brexit – Svolta nella notte di mercoledì scorso: in parlamento passa per 1 voto la legge che esclude il no deal, il divorzio senza accordo, e impone a Theresa May di chiedere all’Ue una ulteriore proroga
/ 08.04.2019
di Cristina Marconi

Le maggioranze a Westminster ormai si fanno con un solo voto: e infatti proprio uno in più ne ha preso la proposta della laburista Yvette Cooper e del conservatore Oliver Letwin di escludere il no deal e costringere per legge il governo a chiedere a Bruxelles un rinvio lungo della Brexit e a consultarsi con il Parlamento sulla durata del rinvio. Un colpo di scena tra i mille, tutti a salve, che stanno scuotendo la vita politica britannica in questa stagione apocalittica. Giunto in tarda serata, il sì alla proposta ha come principale risultato quello di mettere i bastoni tra le ruote alla strategia che stava portando avanti la premier Theresa May da circa ventiquattr’ore e che aveva finalmente il sapore di una mossa da vera statista: tendere una mano al leader dell’opposizione Jeremy Corbyn e cercare di trovare una soluzione consensuale per uscire dal pantano in cui la Brexit si è arenata.

Corbyn, vestendo anch’egli per un attimo i panni da aspirante uomo di Stato, ha accettato volentieri la proposta e si è seduto al tavolo con la May, sebbene quest’ultima avesse messo una condizione importante alla sua apertura, ossia il fatto che il testo principale negoziato con Bruxelles, ossia quel trattato di recesso da 585 pagine contenente i punti più importanti come il conto di uscita, i diritti dei cittadini europei e soprattutto quella clausola di salvaguardia per evitare il confine fisico tra Irlanda e Irlanda del Nord diventata il centro di un dibattito in cui si è urlato molto e deciso ben poco.

Questa proposta di larghe intese nasce male, arriva tardi, quando i pozzi sono ormai troppo avvelenati per pensare di creare qualcosa di costruttivo e tutti hanno in mente una strategia da perseguire per arrivare alla loro situazione ideale, che sia il no deal, la no Brexit, il brivido del secondo referendum, l’utopia norvegese o la noiosa solida concretezza dell’accordo della May. Nessuno dei due leader in questione è riuscito a preparare il terreno in questi anni e, in una strategia speculare e sterile, entrambi hanno lavorato sull’ambiguità delle loro posizioni nella speranza che una soluzione emergesse da sé.

Entrambi hanno molto da guadagnare dall’approvazione dell’accordo. La May perché potrebbe chiudere con una nota di gloria un percorso che l’ha vista arrivare politica rampante dagli slogan assertivi e dalla reputazione impeccabile di dura e che nel giro di quasi tre anni l’ha ridotta a martire, bramosa di approvazione da parte degli oltranzisti dell’Erg, corrente che non ha mai fatto onore al suo nome di «European Research Group» proponendo qualcosa di più argomentato e ricercato che qualche dichiarazione biliosa e distruttiva. Ma la mossa della Cooper ha tolto alla premier l’unico strumento ancora funzionante che aveva in mano, ossia la fretta, la possibilità di dire «il burrone è lì, restate con me». A Corbyn converrebbe perché potrebbe andare alle urne come sogna da anni senza il peso di un dossier tossico e divisivo come quello europeo, che ha rovinato più di una carriera politica nel Regno Unito.

Si può guardare la Brexit come una stravaganza britannica, e sicuramente nella caratteristica riservatezza degli inglesi e nel talento nazionale nell’ignorare gli elefanti nella stanza o gli elementi di disturbo si possono trovare molte radici della situazione attuale. Però c’è qualcosa di sinistro nel modo in cui i populisti sono riusciti a tenere sotto scacco un Paese pur essendo minoranza e pur senza essere eletti, e questa è la lezione che il resto d’Europa, se non del mondo, dovrebbe guardare con preoccupazione.

Perché non c’è un populista a Downing Street, ma una donna di principi saldi che dal luglio del 2016 cerca di domare i populisti dando una risposta quasi tecnocratica alle loro preoccupazioni, invece di scegliere la via della leadership, «potere legittimato sulla base delle eccezionali qualità personali di un capo o la dimostrazione di straordinario acume e successo, che ispirano lealtà ed obbedienza tra i seguaci» secondo la definizione di Max Weber. Il risultato di questa sudditanza è davanti agli occhi di tutti: lo stallo, la paralisi interrotta solo dai sinistri rumori di una piazza pronta ad esplodere rivendicando le promesse che le sono state fatte in una direzione o nell’altra.

Pare che nel caso della May sia stato un viaggio in Irlanda fatto a fine febbraio a farle capire quanto fosse importante cercare di mantenere l’equilibrio dell’isola basato sugli accordi di Venerdì Santo. Il principio di realtà, che a tanti deputati britannici manca anche per via di un sistema basato su un contatto stretto con l’elettorato e le sue preoccupazioni quotidiane, le hanno imposto di fare una scelta a lungo ritardata, ossia quella tra il rischio di far precipitare il suo Paese nel no deal e quello di vedere il suo partito spaccarsi.

Da decenni nei Tories convivono un animo liberale, internazionalista, progressista e corsaro, favorevole a uno Stato piccolo e a una grande libertà personale, e uno più chiuso, isolazionista, conservatore nel senso più proprio del termine, avverso a passi avanti come il matrimonio gay voluto da David Cameron e profondamente euroscettico. Il secondo gruppo è in grado di corteggiare e coinvolgere le classi popolari grazie a un discorso protezionista che fa una forte concorrenza ai laburisti. Il rapporto con la Ue è la linea tratteggiata lungo la quale è più facile che tutto si spezzi, come sta effettivamente avvenendo.

Nel momento in cui nella clessidra scendono gli ultimi granelli di sabbia prima che si debba uscire senza accordo con la Ue, la May ha scelto di guardare all’interesse nazionale, anche perché sono anni che cerca di lusingare gli euroscettici senza ottenere altro che tradimenti, rivolte, attacchi.

Anche lo spettacolo ormai ricorrente delle dimissioni di membri del governo, un paio in questo caso, si è ripetuto in questi giorni. Due le critiche principali mosse alla scelta della premier: una vede nel compromesso un inaccettabile annacquamento della Brexit, visto che con ogni probabilità il punto di accordo si troverebbe sull’unione doganale, soluzione che impedisce di stringere patti commerciali indipendenti ma che ha l’enorme vantaggio di non porre alcun problema di frontiere tra Irlanda e Irlanda del Nord; l’altra vede nel ruolo di salvatore dato a Corbyn qualcosa di inaccettabile in uno scenario politico molto tribale.

Anche se la May, con il suo tentativo estremo di evitare il no deal, costringe di fatto l’oppositore laburista a scoprire le sue carte dopo anni di tentennamenti e l’ammissione recente che la fine dell’immigrazione europea è un’esigenza anche per il Labour. In una lettera ai deputati Tories, la premier ha spiegato che avrebbe «preferito» che il Parlamento ratificasse il suo accordo raggiunto con Bruxelles il 25 novembre scorso, ma «dopo aver provato tre volte è improbabile che avvenga».

Il problema è che tutti pensano al futuro ma nessuno osa prendersi la responsabilità di dargli forma. A Westminster i deputati sanno che i voti sulla Brexit li accompagneranno per sempre e quindi, invece di guardare al bene del Paese, pensano a costruirsi un curriculum a prova di futuro grazie a molto virtue signalling, che potremmo tradurre come «autocertificazione di virtù». La May ha proposto a Corbyn di parlare di futuro, di qualcosa che eventualmente si potrebbe anche disfare o riformare o cambiare un giorno, ma tutto sembra indicare che non succederà. Resta da capire come ci si arriverà, a questo futuro.