L’ultima speranza

Elezioni Usa – Hillary Clinton appoggia l’iniziativa della verde Jill Stein per verificare le irregolarità di voto notate da esperti in Wisconsin, Michigan e Pennsylvania. Ma fin d’ora appare come un processo vano e antidemocratico
/ 05.12.2016
di Paola Peduzzi

Il riconteggio dei voti in alcuni Stati dell’America è l’ultima speranza cui s’appigliano quelli che ancora non si rassegnano alla vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali, ma è una speranza un po’ dispotica e un po’ vana. Ricontare va bene, ma poi? La possibilità che siano evidenziati dei brogli o addirittura che la Casa Bianca venga consegnata a Hillary Clinton è remota, e se mai si concretasse le ripercussioni sul Paese sarebbero, nella migliore delle ipotesi, disastrose.

Il riconteggio in Wisconsin, Michigan e Pennsylvania s’accompagna con un altro processo ancora in corso, che è quello dello spoglio del voto popolare: secondo gli ultimi dati, Hillary Clinton ha ottenuto 64,6 milioni di voti, contro i 62,4 di Trump, una differenza di 2,2 milioni di voti che è destinata ad aumentare a favore dell’ex candidata democratica (la quale però ha già sancito la propria sconfitta, la mattina dopo il voto, con un completo nero e viola e un magone quasi insostenibile). Il numero è straordinario, soltanto Barack Obama ha vinto in assoluto più voti nelle ultime sette tornate elettorali, e naturalmente conforta gli speranzosi – di fatto, dicono, Hillary ha vinto – e pure i sondaggisti, considerati i colpevoli numero uno dello shock dell’elezione di Trump: non avevamo sbagliato poi tanto, anzi, forse avevamo ragione, dicono.

La ragione in questi casi è un po’ come quando si parla di «vittorie morali»: non conta, anzi, rischia di alimentare illusioni che rasentano l’antidemocrazia e soprattutto di rallentare un processo di normalizzazione che è indispensabile per quanto già parecchio complicato.

Donald Trump non è rimasto fuori dalla questione del riconteggio – non è nella sua natura tacere – e anzi ci si è infilato con una delle sue spericolate «tweetstorm», tempeste su Twitter: prima se l’è presa con Jill Stein, la candidata dei Verdi che ha aperto la procedura del riconteggio, poi con la stessa Hillary, così baldanzosa nel difendere il risultato elettorale quando era convinta di vincere e oggi invece più tentennante, «nonostante tutti i soldi che ha speso» – il team di Hillary ha infatti deciso di assistere lo staff della Stein nel riconteggio in Wisconsin. Poi però inavvertitamente, come spesso gli capita, Trump ha creato la migliore argomentazione esistente all’idea di un riconteggio, scrivendo: «Oltre a vincere i collegi elettorali a valanga, ho vinto anche il voto popolare, se si tolgono i milioni di persone che hanno votato illegalmente». E ancora: «Brogli seri in Virginia, New Hampshire e California – allora perché i media non ne parlano? Seri pregiudizi, un gran problema». 

Con il tempo i giornalisti dovranno in qualche modo imparare a non stare dietro a ogni uscita-tweet del neopresidente Trump – ci sono già articoli e analisi sul tema: un tweet è una notizia? – ma la sua reazione è stata piuttosto bizzarra, se si pensa che così facendo ha dato più di un buon motivo per pensare che il riconteggio sia indispensabile, e che i brogli potrebbero in effetti essersi verificati.

Lo spirito che muove l’altro emisfero della politica americana rispetto a Trump è naturalmente diverso. Lì si vive in un rimpianto assoluto, in cui la vittoria del candidato repubblicano non è considerata né possibile né plausibile, e si vorrebbe riportare il mondo indietro, al 7 novembre, e rifare il voto da capo. L’illusione di trovare un qualche errore alimenta la piazza di chi, con i cartelloni «non mi rassegnerò mai», non ci vuole stare. Tecnicamente, l’iniziativa è stata voluta dal Green Party, che alle elezioni ha preso l’un per cento dei voti, e riguarda il Wisconsin (dove Trump ha vinto di 22’177 voti), il Michigan (10’704 voti) e la Pennsylvania (71’313 voti). La Stein ha iniziato una raccolta fondi per finanziare il riconteggio, e a oggi ha fruttato più di 6 milioni di dollari – che secondo Trump servono soltanto a riempire le casse vuote di un partito fallito.

Nonostante le pressioni di molti specialisti – in particolare quella di due professori dell’Università del Michigan che hanno fornito prove del fatto che nel loro stato lo spoglio è stato «manipolato o hackerato», e l’hackeraggio riguarderebbe le macchine del voto elettronico – Hillary Clinton non ha voluto lanciare l’offensiva del riconteggio, ma il suo staff partecipa come osservatore in Wisconsin «per garantire che il processo proceda in modo equo per entrambe le parti». L’avvocato della campagna di Hillary, Marc Elias, ha spiegato che c’è un’intenzione di partecipare, ma di fatto non è stato riscontrato per ora da parte sua alcuna prova di broglio. Il problema principale resta il voto elettronico che può essere soggetto ad hackeraggi difficili da individuare e quantificare.

È la prima volta che viene organizzato un riconteggio di questa portata – in tre Stati – in occasione di elezioni presidenziali, se si esclude naturalmente il caso della Florida nel 2000, quando la decisione finale fu riservata alla Corte Suprema (per la cronaca: c’è ancora chi non si è rassegnato alla sconfitta di Al Gore, sedici anni dopo). È spesso invece accaduto che si ricontasse nelle elezioni statali e in quelle per il Congresso, che però hanno un altro impatto – anche a livello internazionale – rispetto alle presidenziali. 

Ora molti contestano il sistema elettorale americano, decretando la fine prematura del sistema dei «grandi elettori», che sono stati eletti Stato per Stato ed eleggeranno ufficialmente il presidente Trump il 19 dicembre. Secondo la legge, il riconteggio deve essere completato entro il 13 dicembre, ma molti dubitano che il processo riesca a concludersi per quella data. Soprattutto: che cosa accade dopo? Se si leggono i giornali locali degli Stati coinvolti nel riconteggio, è chiaro che anche i leader democratici del posto sono abbastanza certi che non cambierà nulla, che non si scoprirà niente di così rilevante, e che comunque il risultato finale non cambia. Perché Hillary superi Trump nel numero di grandi elettori, tutti e tre gli Stati dovrebbero passare dalla sua parte, cioè si dovrebbero dimostrare manipolazioni o hackeraggi in tutti i riconteggi: così Hillary otterrebbe 278 grandi elettori contro i 260 di Trump.

Sulla base di questi sforzi invero poco democratici, ci sono petizioni online e pressioni di ogni genere per convincere almeno 37 degli attuali 306 grandi elettori di Trump a non nominarlo presidente. Si parla già di alcune defezioni – come si sa i grandi elettori non hanno un vincolo di mandato: prendono soltanto una multa, e non in tutti gli Stati, se non votano il candidato che ha vinto il loro Stato – ma sono minori e nemmeno certe, perché i grandi elettori repubblicani sono al fondo contenti di aver conquistato la Casa Bianca: nel mondo conservatore l’astio nei confronti di Trump sta scemando. E se anche si trovassero i 37 disertori, probabilmente non ci sarebbe nessuna maggioranza né per Trump né per Hillary: in questo caso l’elezione andrebbe alla Camera dei Rappresentati, ogni delegazione statale avrebbe un voto. Al momento i repubblicani hanno la maggioranza in 32 delegazioni statali della nuova Camera dei Rappresentanti, mentre i democratici ce l’hanno in 17. Anche in questa ipotesi inaudita, Trump risulterebbe presidente.

Con tutta probabilità Hillary Clinton è stata convinta a entrare in modo cauto nel riconteggio dalle pressioni di chi ancora non può credere alla sconfitta, ma sa bene che il processo non porterà a nulla – è stata lei la prima a definire Trump «il nostro presidente». Al di là dei numeri, quel che conta di questa elezione non è il rimpianto ma la dimostrazione sul campo che la spettacolare macchina elettorale clintoniana e democratica è stata annientata da una campagna improvvisata ma ben cosciente dell’umore del Paese. Questa è la vittoria di Trump, e non può più essere ignorata. Non è un caso che Bernie Sanders, ex rivale della Clinton alle primarie, abbia già detto, riguardo al riconteggio: «Vediamo che succede, è un diritto legale ricontare. Ma non è un “big deal”, non penso che qualcuno, la Clinton o altri, sia convinto che questo processo porti a dei cambiamenti profondi». Sanders – che molti guardano con il massimo del rimpianto, se ci fosse stato lui avremmo vinto: i dati demografici dimostrano che non è vero, nemmeno lui ce l’avrebbe fatta – sa che non si può più pensare a quel che è stato, semmai è meglio correre a intercettare quel voto di protesta che è ancora estremamente volubile. A lui che si candida come il generale della riconquista della middle class, il riconteggio non importa nulla.