Lula condannato per corruzione

Brasile – L’ex presidente ricorrerà in appello contro la sentenza a nove anni e mezzo di carcere, che potrebbe impedirgli di ricandidarsi l’anno prossimo
/ 24.07.2017
di Angela Nocioni

Stravolge la politica brasiliana la condanna in primo grado dell’ex presidente della repubblica Lula Da Silva a nove anni e sei mesi di carcere per corruzione e per riciclaggio pronunciata l’11 luglio a Curitiba.

Nonostante la notizia fosse data per imminente da mesi, nonostante la grande copertura mediatica dell’inchiesta «Lava Jato» (autolavaggio) sul sistema di corruzione degli appalti pubblici e finanziamento occulto ai partiti abbia preannunciato l’esito della prima istanza del processo contro Lula già da tempo, l’uscita della sentenza ha scosso come un sisma lo scenario già terremotato della crisi politica brasiliana.

Per il momento Lula non andrà in prigione. Solo se la sentenza d’appello confermerà il giudizio pronunciato dal giudice Sergio Moro, instancabile accusatore di Lula, potrà scattare l’arresto. E non è detto.

Il Superiore tribunale di giustizia ha chiarito che solo se all’unanimità i tre giudici del secondo grado confermassero il giudizio di condanna potrebbe scattare l’arresto. In caso ci fosse anche un solo voto contrario, l’appello non potrebbe essere considerato concluso, quindi non potrebbe avvenire l’arresto.

La questione è fondamentale per il futuro degli scenari politici brasiliani perché l’ex presidente è da mesi, secondo tutti i sondaggi, il favorito alle elezioni presidenziali dell’ottobre 2018. Una volta confermata in appello la sentenza, scatterebbe per lui la revoca del diritto all’elettorato passivo. Addio candidatura. Potrebbe verificarsi il caso opposto: un’assoluzione al tribunale di secondo grado. Il Tribunale d’appello che passa in rassegna le sentenze della procura di Curitiba, emesse dal giudice Moro, è il tribunale di Porto Alegre, che finora ha bocciato il 54 per cento delle sentenze di Moro nell’inchiesta Lava Jato. Un ribaltamento della sentenza di Moro a ridosso delle elezioni porterebbe probabilmente Lula in volata alla rielezione. Lui ha già detto che si candida. «Se qualcuno pensa che questa sentenza mi abbia messo fuori gioco, sappia che io sono in gioco» è stato il suo commento alla condanna.

Molto probabile è una terza via: un giudizio di condanna confermato, ma non all’unanimità. È questo, perlomeno, lo scenario al quale la difesa di Lula si sta preparando. Il Tribunale di secondo grado ha fatto sapere di voler esprimersi prima delle prossime elezioni, ma non ha potuto dire ovviamente quando.

Gli avvocati dell’ex presidente puntano a riuscire a far slittare la sentenza a dopo il 15 giugno 2018, data di inizio delle convention per la nomina dei candidati. Se arrivasse a quel punto una sentenza di conferma di condanna, ma non unanime, non potrebbe scattare la legge che impedisce al condannato di candidarsi e Lula punterebbe tutto allora sulla elezione.

La sentenza contro Lula – che sessanta giuristi lulisti stanno smontando riga per riga per farne un libro su «come non si fa una sentenza» con cui stroncare il lavoro di Moro – nasce da un caso minore dei cinque in cui Lula appare come accusato: i lavori per la ristrutturazione di un attico, in una località balneare del litorale di San Paolo.

Quella ristrutturazione, secondo i giudici, nasconderebbe il pagamento di una tangente di 3,7 milioni di reais brasiliani, circa un milione di euro, da parte di una impresa di costruzioni, La Oas, beneficiata dal sistema di tangenti di cui Lula è considerato essere stato perfettamente a conoscenza.

La difesa dell’ex presidente contesta, tra moltissimi rilievi, il fatto che la proprietà di quell’appartamento non può esser fatta risalire a Lula in alcun modo visto che non esiste un documento di proprietà, un atto di compravendita, nulla. Moro risponde che «nei reati di riciclaggio il giudice non può attenersi unicamente alla titolarità formale dei beni» sostenendo che quell’attico fosse di fatto a disposizione dell’ex presidente. Che, però, non l’ha mai abitato nemmeno per un giorno.

Il primo effetto collaterale della sentenza Moro è stato la resurrezione politica di Marina Silva, l’ecologista radicale che uscì dal primo governo Lula in polemica contro la deforestazione dell’Amazzonia. La Silva, che tutti i sondaggi fino alla settimana scorsa davano come l’unica candidata in grado di battere Lula al ballottaggio (su di lei convergerebbero i voti della sinistra anti Lula, più quelli della destra) è rimasta negli ultimi mesi in disparte. Da qualche giorno sta invece mobilitando Rede, il partitino da lei creato per partecipare alle ultime elezioni, preparando i suoi a mettere in piedi la campagna elettorale. Scrive la «Folha de Sao Paulo»: «Il giorno dopo la condanna dell’ex presidente, Marina Silva ha chiamato i leader di Rede al Congresso per parlare dei programmi del 2018. Fino ad adesso enigmatica sulla sua disponibilità a correre per il Planalto, vuole ora allestire una sua agenda da candidata».

Tutto ciò avviene in un momento di gravissima crisi istituzionale e politica del Brasile. Dopo l’impeachment per una pedalata fiscale, reato amministrativo e non penale, che a fine agosto dell’anno scorso cacciò dal Planalto la presidente Dilma Rousseff, Michel Temer (il vice che ha preso il suo posto, ultradestra conservatrice) rischia di essere cacciato dalla presidenza per reati ben più pesanti di quelli attribuiti a Dilma, di cui si dice innocente, compiuti secondo l’accusa in vari casi di corruzione.