Lukashenko non se ne va, anzi

Bielorussia - Il risultato delle elezioni e la reazione violenta della polizia alle proteste popolari creano un movimento trasversale in cui si uniscono giovani e anziani, intellettuali e operai, ma il presidente non molla
/ 24.08.2020
di Anna Zafesova

«Bielorussi, siete incredibili»: ripetuta decine di volte, nelle piazze e nelle chat, la frase è diventata uno degli slogan della protesta contro Alexandr Lukashenko, con tutto lo stupore e l’orgoglio di una nazione che da «ultima dittatura d’Europa» si è scoperta protagonista di una rivolta pacifica ma determinata contro l’autocrate. Dalle elezioni del 9 agosto, decine e centinaia di migliaia di persone in tutta la Bielorussia scioperano e manifestano per avere un nuovo voto, onesto e trasparente. Una richiesta alla quale si è unita anche l’Unione Europea, che non ha riconosciuto l’80 per cento che Lukashenko si è attribuito, e ha chiesto nuove elezioni e dialogo con l’opposizione. Ma mentre Bruxelles e altre capitali occidentali hanno messo in guardia contro un’ingerenza russa, a Minsk è iniziata una invasione «ibrida» di consulenti venuti da Mosca ad affiancare i propagandisti e i poliziotti di Lukashenko, un alleato poco gestibile che però Vladimir Putin ha deciso di preferire all’alternativa di un cambio al vertice e soprattutto di un cambio di regime in senso democratico.

Lukashenko governa ininterrottamente da 26 anni, e questo è il quinto risultato elettorale che l’Europa non gli riconosce come valido. Ai brogli si è aggiunta la repressione violenta della protesta per il risultato falsificato: almeno 6 mila fermi, quattro persone uccise dalla polizia che ha aperto il fuoco sui manifestanti, decine di feriti e centinaia di cittadini pacifici arrestati e torturati dalla polizia. I medici hanno segnalato decine di ferite gravi, e anche di stupri, e le urla dei detenuti nella prigione di Okrestino sono state ascoltate dai parenti radunati sotto le mura del penitenziario. Ma l’incredibile brutalità della repressione non ha spaventato i bielorussi, aumentando semmai il sostegno alla protesta, che ora chiede oltre a nuove elezioni anche lo stop alle violenze e la punizione dei responsabili.

I manganelli della polizia hanno trasformato la protesta in un’autentica rivolta popolare, che ha visto affiancate generazioni giovani e meno giovani, intellettuali e operai, abitanti della capitale e delle città di provincia, uomini e donne. Il colore bianco dei vestiti delle centinaia di donne che hanno formato nelle strade catene umane contro la violenza non richiama soltanto l’abito tradizionale e il nome del Paese («Russia bianca»), ma vuole essere anche il simbolo di questa trasversalità. È una rivolta che non si appoggia a partiti – la dittatura di Lukashenko ha praticamente represso per decenni l’opposizione – o ideologie, non ha programmi politici definiti, slogan chiari o volti carismatici.

A sfidare Lukashenko alle elezioni sono state tre donne, la candidata d’opposizione Svetlana Tikhanovskaya e le sue alleate Veronica Tsepkalo e Maria Kolesnikova. Le prime due hanno sostituito nella corsa elettorale i mariti – il blogger Sergey Tikhanovsky è stato incarcerato da Lukashenko, l’oppositore Valery Tsepkalo è riuscito a fuggire dalla Belarus prima di finire dietro le sbarre – mentre la terza è la capa della campagna dell’imprenditore Viktor Babariko, anch’egli arrestato. Secondo gli exit poll indipendenti improvvisati – in Bielorussia sono vietati i sondaggi d’opinione – la 37enne casalinga Tikhanovskaya ha conquistato il 70 per cento dei voti. Svetlana ha depositato la sua protesta alla commissione elettorale, solo per venire fermata per diverse ore, per poi comparire nella notte nella vicina Lituania, mentre la tv di Stato mostrava un video in cui leggeva da un foglietto un appello ai suoi sostenitori di arrendersi. Costretta all’esilio dalle minacce, viene comunque considerata la leader eletta dalla protesta, che non si è sentita decapitata dalla sua assenza.

È una rivoluzione strana, pacifica, organizzata e piena di dignità, e totalmente decentralizzata, se non fosse per alcuni canali Telegram che diffondono appelli e indicazioni su luoghi e orari dei raduni. La gente si organizza da sola: nelle chat vengono postate offerte di rifugio per chi è in fuga dai manganelli della polizia, raccolte di cibo, acqua e medicinali per i feriti, appelli a correre a sostenere questa o quella fabbrica in sciopero. Capillare e disintermediata, la protesta per ora non ha avanzato richieste geopolitiche: non si propone l’adesione all’Europa, come il Maidan di Kiev nel 2013, o una rottura con Mosca, dalla quale il Paese dipende quasi totalmente nell’economia.

Molti manifestanti usano il bianco – fiori, braccialetti di nastri, vestiti – oppure sventolano la bandiera bianca con la striscia rossa della Bielorussia indipendente, sostituita da Lukashenko con quella rosso-verde della Bielorussia sovietica. Ma è difficile parlare di una piazza nazionalista: la quasi totalità del bielorussi parla russo e non nutre nei confronti dei vicini sentimenti ostili.

Mosca dal canto suo sembrava all’inizio intenzionata a rimanere a guardare, anche perché irritata dalle promesse mancate di Lukashenko di cedere l’indipendenza della Bielorussia in una unione con la Russia, e dai suoi continui ricatti sul prezzo del petrolio. La repressione ordinata da Lukashenko, e le sue accuse sconclusionate su una protesta manipolata dall’estero, Russia inclusa, hanno infastidito molti a Mosca, che però alla fine ha vacillato di fronte alla prospettiva di «perdere» il vicino orientale, che con una democrazia si sarebbe inevitabilmente avvicinato all’Europa e allontanato da Putin. Il presidente russo ha telefonato ad Angela Merkel ed Emmanuel Macron per chiedere loro di non interferire nelle proteste, e di riconoscere le elezioni. A Minsk sono stati inviati giornalisti russi a sostituire i colleghi in sciopero della Tv, agenti da affiancare ai poliziotti bielorussi, e propagandisti che hanno fatto cambiare completamente retorica a Lukashenko: è tornato a essere entusiasta di una integrazione totale con la Russia, retorica che abbinata alla promessa di una nuova Costituzione da approvare in un referendum fa pensare a un’ipotesi di annessione «ibrida», che Lukashenko accetta per salvarsi dalla rabbia dei bielorussi, infuriati anche dal negazionismo del Covid-19 da parte del presidente.

Il sostegno russo ha riacceso la repressione, dopo qualche giorno di pausa: nuovi arresti sono stati accompagnati da licenziamenti di operai in sciopero e registi, giornalisti e professori che avevano espresso solidarietà alla protesta. La richiesta europea di un dialogo con l’opposizione è stata rigettata: il neonato Consiglio di coordinamento, di cui fanno parte attivisti, operai e intellettuali di spicco come la scrittrice premio Nobel Svetlana Alexievich, è stato subito incriminato per «tentata presa di potere». Lukashenko non esita a dichiarare «non consegnerò mai il mio Paese in mani altrui», e i cittadini che protestano sono stati definiti da lui «criminali, prostitute, drogati» e da qualche giorno anche «nazisti», in un tentativo di screditare l’opposizione secondo il modello di fake news già utilizzato dalla propaganda russa in Ucraina. In altre parole, il presidente uscente non sembra intenzionato a cercare il compromesso, ma vuole andare allo scontro, forse incoraggiato dalla rottura degli indugi di Putin, che di fronte al rischio di vedere una Bielorussia più europea ha preferito correre il rischio di nuove sanzioni internazionali per l’ingerenza nel Paese vicino.

La scommessa di Mosca potrebbe essere quella di ridare con l’annessione, in una forma più o meno «consensuale», respiro al progetto imperiale postsovietico di Putin. Che non può non vedere nello scontro della piazza con un dittatore impopolare una proiezione di un suo probabile futuro. A Khabarovsk, nell’Estremo Oriente russo, la gente scende in piazza già da due mesi contro il presidente, ma ora manifesta anche per solidarietà con la Bielorussia, e Lukashenko ha accusato i suoi oppositori di essere manovrati da Alexey Navalny, il leader del fronte antiputiniano in Russia. Due giorni dopo, Navalny è stato ricoverato in coma dopo essersi sentito male a bordo di un aereo in Siberia: è stato avvelenato da una sostanza sconosciuta, e i suoi seguaci non dubitano che sia stato vittima di un attentato con il veleno, come tanti altri nemici del Cremlino prima di lui.