Il mancato ingegnere e mancato dottore in legge Luigi Di Maio potrebbe regalare a mamma Paola e a papà Antonio l’enorme soddisfazione di diventare il più giovane capo di governo della storia nazionale. Per i genitori – lei insegnante d’italiano e latino, lui dirigente prima del Movimento sociale italiano e poi di Alleanza nazionale, i due partiti della destra nostalgica entrambi spariti – sarebbe la massima ricompensa per la fallita laurea e la conferma di aver allevato il figlio nel migliore dei modi: prima democristiano e poi grillino, disse la signora Paola in un’intervista televisiva a Bruno Vespa.
Di Maio è infatti il candidato leader del Movimento 5 Stelle, indicato dai sondaggi quale probabile vincitore delle elezioni politiche dell’inverno 2018. Ma per governare servirebbe o il premio di maggioranza o l’accordo con altre forze. Il primo appare problematico: presuppone il 40% dei voti, dieci punti in più della quota attualmente attribuita al M5S; il secondo contrasterebbe con uno dei tanti dogmi predicati da Grillo. E benché l’incoerenza si sia rivelata negli anni il credo più sostanzioso del comico genovese e dei suoi adepti, Di Maio naturalmente in prima fila, la convivenza con gli aborriti partiti – dalla Lega pararazzista di Salvini ai nostalgici di Fratelli d’Italia della Meloni – potrebbe risultare indigeribile anche per una base ormai abituata a digerire rospi in quantità.
D’altronde il consenso crescente per il M5S ha resistito agli sconquassi romani della sindaca Raggi, ai dispotici comportamenti di Grillo, pronto a cancellare ogni elezione interna contraria ai propri gusti, allo stravolgimento dei famosi punti programmatici a cominciare dal famoso e strombazzato «uno vale uno», risoltosi in clamoroso bluff, fino all’aver adottato la più democristiana delle regole: le leggi si applicano contro i nemici, il sindaco di Parma, Pizzarotti, e s’interpretano con gli amici, dalla Raggi allo stesso Di Maio impantanatosi in alcune vicende capitoline. Ormai è chiaro che nessuna nefandezza politica li può fermare.
Sessant’anni di pessima partitocrazia hanno infatti scatenato in un terzo dell’elettorato la voglia di azzerare tutto quanto possa avere attinenza con il passato e con il presente. Ruberie, clientelismi, tangenti, favoritismi, privilegi, nepotismi hanno cancellato gli antichi e considerevoli meriti del sistema. C’è una tale richiesta di cambiamento che a Grillo si può attagliare il paradosso pronunciato da Trump durante la campagna elettorale negli Usa: vincerebbe anche se si mettesse a sparare in piazza contro i passanti.
Di questo fenomeno viscerale Di Maio è stato per un lungo periodo il volto più presentabile. L’aspetto assai curato da bravo ragazzo, mai con la barba, mai un capello fuori posto, mai un’occhiaia; l’inappuntabile eleganza grandi magazzini, con il colletto delle camicie ben stirato sotto il blazer d’ordinanza, hanno assolto al compito di tranquillizzare i potenziali elettori sulle tendenze piccolo borghesi, più destrorse che progressiste, del Movimento. Il tifo sfegatato per la Ferrari e per Schumacher, l’impegno al liceo contro la Sinistra e per la ricostruzione dell’edificio scolastico, la passione per la storia di Montanelli e per le biografie dell’ex presidente Pertini sono servite a disegnare il ritratto del ragazzo della porta accanto. Una voce talmente dentro il coro che alla prima prova elettorale, le comunali a Pomigliano d’Arco, il suo paese, raccolse 59 voti. Andò un po’ meglio all’esame del web nella scelta dei candidati alle elezioni nazionali del 2013: 189 voti, che poi si sono trasformati nelle decine di migliaia di consensi capaci di regalare al M5S il primo posto e di aprire ai tanti suoi carneadi le porte di Camera e Senato.
Di Maio ha subito esibito la furbizia di ostentare il massimo distacco da ogni incarico pubblico e di conquistare così la designazione a vice presidente della Camera con un semplice annuncio: «Non chiamerò mai più i deputati “onorevoli”». I suoi avversari interni garantiscono che abbia contraddetto pure quest’impegno, mentre si conquistava l’etichetta di «mister cartellino rosso» a causa del gran numero di onorevoli espulsi allorché gli è toccato dirigere i lavori di Montecitorio.
Negli ultimi mesi il suo sorridente profilo di predestinato è stato spesso attraversato da espressioni corrucciate e non solo per aver sbagliato qualche congiuntivo o aver definito Pinochet il dittatore del Venezuela. Il ruolo di grande protettore della disastrosa Raggi l’ha esposto a figuracce, smentite, mezze verità al punto da sembrare un esponente della vecchia politica «merda e sangue» (celeberrima definizione dell’ex ministro socialista Formica) piuttosto che un aedo della rivoluzione purificatrice prossima ventura. Ha capito che la rinuncia ad auto blu, diarie, indennità viene giustamente apprezzata da tanti cittadini desiderosi di sobrietà, ma non basta per governare; che a parole si può promettere il reddito di cittadinanza, guai però a concederlo: per quanto limitato alla popolazione in età lavorativa costerebbe oltre 350 miliardi l’anno, il doppio dei costi totali della sanità, della scuola e dell’università messe insieme. Tant’è vero che il M5S in silenzio ha virato su un reddito minimo, che comporterebbe comunque un esborso di 16 miliardi l’anno.
Eppure, dopo un eventuale successo, a Di Maio non mancherebbero la faccia e l’ambizione di presentarsi sul proscenio e dire: «Abbiamo scherzato». Ha già preannunciato: «Non avremo preclusioni sulla provenienza dei voti a favore del nostro programma».