Dalla Somalia al Mozambico, dall’Etiopia alla Nigeria, l’Africa, in particolare nella sua regione orientale, è tormentata da conflitti striscianti per il controllo delle risorse naturali. Talora gli Stati, talora comunità in conflitto tra di loro cercano di assicurarsi beni vitali e sempre più scarseggianti. Alcune di queste contese sono tenute per il momento sotto controllo; ma non è infondato temere che, in mancanza di soluzioni concordate e durature, possano sfociare in scontri frontali, in guerre fra Stati.
È risaputo che la natura ha benedetto l’Africa, riversando in questo continente i suoi doni con una generosità senza pari. Le risorse vegetali, animali e minerali vi abbondano meravigliosamente. È altrettanto noto che la storia africana, dalla «scoperta» quattrocentesca ad opera dei navigatori portoghesi in poi, è stata segnata dal feroce saccheggio di queste risorse. Oro, avorio, esseri umani ridotti in schiavitù, gomma, petrolio, minerali rari e preziosi, tutto è stato depredato nei secoli.
Dai ninnoli ricavati dalle zanne d’elefante che adornavano le mense dei sovrani seicenteschi, all’uranio che armava le bombe atomiche esplose su Hiroshima e Nagasaki nell’agosto del 1945, le ricchezze dell’Africa sono state asservite alle mire dei potenti della Terra. Oggi i protagonisti sono diversi; alle potenze d’Occidente è subentrata la Cina; i re d’Europa sono stati rimpiazzati da governanti africani, talora altrettanto bramosi di ricchezza, in altri casi genuinamente interessati al benessere delle proprie nazioni. In ogni caso, la caccia alle risorse naturali dell’Africa continua.
Molte altre cose sono cambiate, oltre ai personaggi che animano il proscenio. In primo luogo è diffusa e crescente la consapevolezza che il patrimonio naturale non è inesauribile, bensì è limitato e va preservato e difeso. Tanto più oggi che il mutamento climatico sta facendo sentire assai più che altrove il proprio impatto sulla vita quotidiana di molte regioni del continente. A immagine della mobilitazione avviata dall’esempio dell’adolescente svedese Greta Thunberg, movimenti giovanili cominciano a manifestare la propria presenza nelle piazze delle maggiori capitali africane.
E prima ancora della recente comparsa dei «Fridays for Future», gli attivisti ambientali avevano mosso all’azione le comunità locali, spesso con grave rischio personale. In Sud Africa per esempio si sono opposti ad attività minerarie dall’impatto catastrofico sulle attività agro-pastorali dei contadini locali, subendo minacce ed arbitri da parte delle forze di sicurezza (si veda il rapporto della ong Human Rights Watch).
In Kenya è attiva da anni la mobilitazione contro il gigantesco progetto LAPSSET, il corridoio Lamu Port-South Sudan-Ethiopia Transport. Si tratta del più grande progetto infra-strutturale dell’Africa centro-orientale, da realizzarsi interamente con capitali cinesi. Il suo scopo è quello di portare fino al mare il greggio del Sud Sudan – estratto da compagnie petrolifere cinesi – rendendosi autonomi dal Sudan, Paese attraverso il quale il petrolio è costretto attualmente a transitare. Il terminale marino del corridoio dovrebbe essere costituito da un megaporto per le superpetroliere, con ben 32 moli, tre aeroporti internazionali, collegamenti stradali e ferroviari e tre «resort» turistici.
Le associazioni ecologiste, pron-tamente perseguitate dal governo keniano, sostengono che l’impatto della sua realizzazione sarebbe devastante per l’aria, le acque oceaniche, le attività agricole e di pesca. In luglio hanno registrato un’importante successo quando il Tribunale nazionale ambientale del Kenya ha revocato la licenza di costruzione della centrale a carbone che dovrebbe sorgere a Lamu per fornire energia all’intero progetto. Ma il resto dei lavori continua, così come le proteste e con esse le minacce, gli arresti, le detenzioni, le proibizioni di organizza-re manifestazioni pubbliche.
Nel frattempo il governo del Kenya, già attivamente impegnato a onorare i patti con la Cina per il terminale petrolifero di Lamu, è schierato su un altro «fronte petrolifero» con la vicina Somalia. Oggetto della contesa sono i giacimenti off-shore che entrambi i Paesi rivendicano. Il rinato governo somalo, sotto la presidenza di Mohammed Abdullahi «Farmajo», fa della questione una bandiera del ritrovato orgoglio nazionale; da parte sua il Kenya, che da sempre ambisce a un ruolo-guida in Africa orientale, non intende cedere. Un negoziato è aperto per ridefinire le frontiere marittime tra i due Paesi; il suo esito è incerto.
Non va dimenticato che la costa keniana è esposta alle incursioni di milizie fondamentaliste islamiche di matrice somala, le quali già in passato hanno compiuto attacchi e raid contro località turistiche. Il timore è che possano approfittare della rinnovata tensione per tornare in azione, alla stregua di quanto avviene nel nord del Mozambico. Lì l’entrata in scena di ambigue formazioni armate islamiste ha completamente bloccato i progetti di realizzazione di un altro grande terminale, in questo per il gas estratto dalle profondità marine.
Il contenzioso tra Kenya e Somalia ci ha portato al cuore dei conflitti per le risorse naturali dell’Africa centro-orientale. Due altre grandi questioni sono aperte. La prima riguarda l’ampia regione semidesertica che ha al suo centro il Lago Ciad, il settimo lago più grande del mondo ma fragile, perché poco profondo ed esposto a un clima inclemente. Alla sue acque attingono ben cinque Paesi: Ciad, Camerun, Niger e Nigeria. Un micidiale concorso di fattori ha contribuito negli ultimi anni a una riduzione vertiginosa del volume del lago. Il cambiamento climatico, con l’innalzamento della temperatura e il moltiplicarsi delle siccità; il conflitto innescato nel nord della Nigeria dalle milizie islamiche di Boko Haram; il collasso delle attività pastorali ed agricole in ragione delle avverse condizioni del clima.
Tutte queste crisi hanno provocato esodi massicci di popolazioni che dalle varie direttrici si sono riversate sulle sponde del lago, prosciugandolo ulteriormente. È una catastrofe di enormi proporzioni, molto complessa e di quasi impossibile gestione, periodicamente denunciata e subito dopo dimenticata. Ha inasprito la tradizionale contesa tra allevatori e coltivatori per l’uso delle terre, che sono sempre più arse, dovendo al contempo sostenere un numero crescente di individui. Le tensioni sono esplose in conflitti armati, che si accendono e si spengono come una vera e propria guerra a bassa intensità.
Di tutte, la più minacciosa questione è quella legata al controllo delle acque del Nilo. Sette anni fa l’Etiopia avviò la costruzione della ciclopica diga chiamata GERD, ovvero Grand Ethiopian Renaissance Dam, la Diga del Grande Rinascimento Etiopico. Il suo scopo è produrre una enorme quantità di energia elettrica destinata a sostenere lo sviluppo del Paese, nonché irrigare la regione limitrofa. L’Egitto, la cui sussistenza è strettamente legata all’acqua del Nilo, arrivò a minacciare la guerra contro la diga. Da allora i leader di entrambi i Paesi sono cambiati, quello etiopico è stato di recente insignito del Nobel per la Pace. Ma un accordo non si trova. L’ultimo incontro di negoziato, in settembre, si è concluso con un nulla di fatto. L’anno prossimo l’impianto dovrebbe cominciare a entrare parzialmente in funzione. La tensione cresce.