L’orrore libico e le stragi in mare

Si preannuncia ancora un’estate calda sul fronte della migrazione verso l’Europa. Gli operatori umanitari denunciano: migliaia di persone riportate in Libia scompaiono o vengono detenute in condizioni disumane
/ 17.05.2021
di Francesca Mannocchi

Ad aprile, mentre la comunità internazionale celebrava la «nuova Libia» e il Governo di unità nazionale di Abdul Hamid Dbeibeh, nei centri di detenzione della capitale libica si continuava a morire.
L’8 aprile un migrante è stato ucciso e altri due giovani detenuti – entrambi minorenni – sono rimasti feriti a seguito di una sparatoria nel centro di detenzione di al Mabani a Tripoli. Le condizioni di vita nella struttura sono definite con una sola parola – «orribili» – dai pochi operatori umanitari a cui è consentito l’accesso nelle prigioni controllate dal Ministero dell’interno libico. Beatrice Lau è la capa missione di Medici senza frontiere nel Paese nordafricano, la prima espressione che usa quando la incontriamo nella sede dell’organizzazione a Tripoli, pochi giorni dopo i tragici eventi, è «la situazione è intollerabile». Non è la prima denuncia dell’organizzazione internazionale, probabilmente e tragicamente non sarà l’ultima.

«Nell’ultimo periodo stiamo assistendo all’apertura di nuovi centri di detenzione e alla riapertura di alcuni siti che erano stati chiusi in precedenza», osserva Lau. «Questo fenomeno è ovviamente legato al numero di persone intercettate dalla Guardia costiera libica, finanziata dall’Europa, e riportate indietro».
Medici senza frontiere è una delle poche organizzazioni che riesce ad avere accesso ai centri di detenzione continuando, da anni, a denunciarne le condizioni, a descrivere luoghi sovraffollati, come il centro di al Mabani dove le celle arrivano a contenere anche 200-250 persone. Nelle settimane dell’incidente il centro di detenzione, con una capienza massima di 400 persone, ne conteneva invece 1’500.

«È un fenomeno che abbiamo osservato con attenzione durante gli ultimi due mesi», riprende la nostra interlocutrice. «Le condizioni nelle celle sono ormai al limite della vivibilità. Adesso ci sono circa tre persone per metro quadrato in questo centro. Non c’è abbastanza cibo, né sufficiente acqua. Non ci sono bagni per tutti, non ci sono quasi aperture nelle celle per far entrare l’aria e la ventilazione è minima. È tutto orribile, davvero orribile. Molti dormono vicino alle latrine perché è l’unico posto da cui possono vedere un po’ di luce naturale. Le persone detenute vivono in uno stato di prigionia del tutto arbitrario, senza sapere se e quando usciranno di lì».
Torniamo all’8 aprile. Quello di al Mabani non è il primo caso di rivolta in un centro. Secondo quanto riportato da testimoni presenti quel giorno, la tensione si è fatta molto alta: un gruppo di detenuti ha cominciato a picchiarsi e sono stati sparati dei colpi che hanno ucciso una persona e ferito due diciassettenni. «Non è il primo incidente simile e purtroppo non sarà l’ultimo», sostiene Lau. «Solo nel mese di febbraio il team di Medici senza frontiere ha curato 36 detenuti per ossa rotte, traumi, lesioni agli occhi, ferite da arma da fuoco e problemi agli arti in vari centri di detenzione».

Ora diamo uno sguardo al di là del mare. I numeri parlano chiaro. Sono già oltre 13 mila i migranti sbarcati sulle coste italiane quest’anno, circa il triplo rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, secondo il Ministero dell’interno italiano, e più di 7 mila le persone migranti intercettate nel Mediterraneo dai mezzi della Guardia costiera di Tripoli e riportate indietro nello stesso periodo, con un aumento significativo nelle ultime settimane. Se è vero che i numeri parlano chiaro e le partenze dalle coste libiche sono in aumento, è altrettanto vero che i conti non tornano.

Federico Soda, capo missione dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, riassume così la situazione a terra: «In Libia al momento ci sono 17 centri ufficiali gestiti dal Governo, con una popolazione di circa 4 mila unità, ma le persone riportate indietro dalla Guardia costiera libica sono molte di più. Lo scorso anno, a fronte di 12 mila migranti intercettati e riportati a Tripoli, nei centri il numero di detenuti non ha mai superato i 4 mila. Significa che migliaia di persone, una volta sbarcate spariscono dai radar, e noi non possiamo fare nulla per sapere dove siano finite. Ecco perché continuiamo con forza a ribadire che la Libia non è stata, non è e non sarà un porto sicuro».

La situazione descritta da Soda, e con lui dalle altre organizzazioni umanitarie e dalle agenzie delle Nazioni unite, è il rischio che una volta recuperati in mare e rimandati a Tripoli, i migranti tornino a essere esposti a un ciclo di sfruttamento, abusi e torture che nessun ente internazionale è in grado di monitorare. «È esattamente da questa situazione di abuso e sfruttamento che i migranti fuggono. Sanno bene che tornare in Libia equivale al rischio di essere ricattati e picchiati. Di più, significa rischiare la vita», conclude Soda, che prevede un’estate ad alta tensione.

I dati lo confermano. Nei soli due giorni a cavallo tra il 30 aprile e il 1. maggio in poche ore sono state rimpatriate in Libia 700 persone. E non sono solo i numeri dei recuperi a preoccupare, ma anche – forse soprattutto – i numeri delle persone che nel Mediterraneo continuano a perdere la vita.
Nell’ultima settimana il conto dei morti sembrava un bollettino di guerra: lunedì scorso dieci corpi sono stati ritrovati lungo una riva della Libia occidentale, due giorni dopo 30 corpi sono stati rinvenuti intorno a Garabulli, uno dei tratti di costa maggiormente interessati dal traffico di esseri umani, il giorno ancora successivo una barca che trasportava 65 migranti si è capovolta lasciando almeno 25 persone senza vita. Numeri che vanno ad aggiungersi al tragico naufragio di fine aprile in cui sono morte 130 persone che cercavano di raggiungere le coste dell’Europa. «La più grande perdita di vite umane registrata nel Mediterraneo dall’inizio dell’anno», secondo un comunicato congiunto di Oim e Agenzia Onu per i rifugiati.

Anche l’Unicef, l’agenzia che si occupa del benessere dei bambini, consegna dati allarmanti. Tra i migranti che sbarcano in Europa uno su cinque è un bambino. Sarebbero 66 mila i rifugiati e migranti minorenni che si trovano attualmente in Libia, più di mille vivono nei centri di detenzione, spesso soli senza avere alcun contatto né alcuna notizia dei propri familiari. «I bambini e i ragazzi che vivono in stato di detenzione sono tagliati fuori dall’istruzione, dall’assistenza sanitaria e sono alla mercé dei trafficanti. È sempre più diffusa la violenza e lo sfruttamento lavorativo a danno dei bambini», si legge nella dichiarazione di Unicef che ha esortato le autorità libiche a rilasciare tutti i bambini e porre fine alla detenzione per i migranti.
L’estate che si profila rischia di essere un’estate molto faticosa, non solo perché come ogni anno il bel tempo favorisce le condizioni per partire ma anche perché – come è spesso accaduto in momenti di svolta politica in Libia – le partenze di barconi e gommoni sono un modo per fare pressione sull’Europa. Europa che stenta a trovare un accordo per il ricollocamento di migranti e rifugiati, e che è chiamata a discutere, il 24 e 25 maggio prossimi durante il Consiglio europeo, anche di soluzioni di medio e lungo periodo sul fenomeno migratorio.

Mario Draghi, presidente del Consiglio italiano – che guida il Paese europeo più esposto agli sbarchi – chiederà alle istituzioni europee una maggiore attenzione per le sorti del Mediterraneo e una manifestazione di solidarietà da parte degli Stati membri, espressa attraverso una ridistribuzione dei migranti come previsto dagli accordi degli ultimi anni che sono stati però più volte disattesi. La prospettiva, dicono dal gabinetto Draghi, non è quella di creare un accordo sul modello di quello stretto nel 2016 tra Europa e Turchia – soldi in cambio del controllo della frontiera e della gestione dei migranti – ma recuperare e riattivare gli accordi di solidarietà decisi a Malta nel 2019 che coinvolgevano Italia, Malta, Germania e Francia. Accordi che sono stati sospesi dall’emergenza Covid. Intanto, mentre l’Europa stenta a manifestare solidarietà e gestire corridoi umanitari e ricollocamenti, si continua a morire. Nel Mediterraneo centrale così come nei centri di detenzione libici.