Ci mancavano solo le eruzioni vulcaniche, per versare petrolio in mare. Lo scorso 14 gennaio una spaventosa esplosione ha scosso il vulcano sottomarino Hunga Tonga, un gigante che dopo avere sonnecchiato per secoli sotto le onde del Pacifico era riemerso in seguito a un’eruzione nel 2009 aggiungendo un’isoletta all’arcipelago delle Tonga. Ora quell’isoletta è scomparsa, il risveglio del vulcano, che ha portato distruzione nell’arcipelago, lo ha di nuovo seppellito nel mare. Ma non senza che un micidiale tsunami si levasse da quel punto zero propagandosi in tutte le direzioni: non solo verso le isole Samoa, la Nuova Zelanda, l’Australia, il Giappone, ma anche verso il continente americano. Ecco l’onda alta due metri che alla velocità di ottocento chilometri l’ora s’inoltra nell’immensità oceanica, divora i diecimila chilometri che separano le Tonga dal Sudamerica, si abbatte sulla costa peruviana.
In quel momento a Callao, il porto di Lima, la petroliera italiana Mare Doricum si sta alleggerendo del suo carico di greggio. Nessuno avverte del pericolo incombente, eppure lo tsunami è in marcia di avvicinamento da alcune ore. L’onda investe la nave, la fa inclinare, trancia i tubi che stanno trasferendo il petrolio alla vicina raffineria. Prima che il travaso possa essere fermato seimila barili di greggio, più di ottocento tonnellate, finiscono in mare, le correnti distribuiscono quella melma nerastra lungo la costa, arrivando fino alla riserva naturale di Punta Guaneras. I danni alla fauna e alla flora sono ingenti. Lo tsunami è penetrato per un centinaio di metri nell’entroterra coprendo 18mila chilometri quadrati.
Gli inquinamenti da petrolio colpiscono tutti gli oceani, ma ancor più gravi sono le conseguenze se avvengono in mari chiusi come il Mediterraneo
Non è la prima volta che ci tocca vedere quelle sconvolgenti immagini di morte: pesci agonizzanti sulle spiagge nere, gabbiani intrisi di petrolio, una natura che grida vendetta. Anche se stavolta la causa scatenante del disastro peruviano è stata del tutto naturale, un’esplosione vulcanica, una pesantissima responsabilità grava su chi non ha ritenuto d’interrompere un’operazione evidentemente a rischio, dopo l’allerta tsunami, come quella che ha continuato a svolgersi nel porto di Callao mentre l’onda si avvicinava. Del resto è lunghissimo l’elenco di questo genere di disastri: una parte non indifferente del petrolio estratto dalle viscere della terra finisce in mare. È accaduto centinaia di volte, la quantità di greggio dispersa fra le onde è in molti casi ben superiore ai seimila barili che hanno devastato la costa del Perù.
Per esempio furono oltre 400mila, secondo certe stime addirittura più di un milione, le tonnellate di petrolio che avvelenarono le acque del Golfo del Messico quando un guasto in un pozzo sottomarino distrusse la piattaforma Deepwater Horizon della British Petroleum. Era l’aprile del 2010 e la marea nera raggiunse un arco costiero che andava dal Messico al Texas e oltre, fino alla Florida. Dopo lunghe negoziazioni la BP si impegnò a pagare risarcimenti per oltre diciotto miliardi di dollari. A volte il disastro deriva da incidenti di navigazione, come quando nel marzo del 1989 una superpetroliera, la Exxon Valdez, andò a sbattere contro uno scoglio al largo dell’Alaska. Dal fianco squarciato della nave fuoriuscirono un quarantina di tonnellate di petrolio che inquinarono un lungo tratto di costa dell’Alaska e il vicino litorale canadese.
Come se tutto questo non bastasse, i mari di tutto il mondo hanno subito le conseguenze dei conflitti armati. La guerra è devastante anche per l’ambiente: si pensi alle migliaia di navi militari e commerciali affondate durante il secondo conflitto mondiale, che hanno trascinato in fondo al mare combustibili, esplosivi, veleni chimici. O alle scorte di gas che l’Armata rossa sequestrò negli arsenali della Wehrmacht durante la vittoriosa avanzata verso Berlino, non trovando di meglio che gettarle nel Mar Baltico. Soltanto una parte di quelle sostanze è già stata rilasciata, prima o poi quei relitti e quei bidoni di gas deteriorati dal tempo si faranno sfuggire il resto. È una bomba inesplosa in attesa dell’inevitabile scoppio ritardato.
Accadde proprio in un contesto bellico il più grave fra i tanti disastri che hanno invaso le cronache. Era il gennaio del 1991 e infuriava la prima guerra del Golfo. In quei giorni un mare di greggio si mescolò alle acque del Golfo Persico, a seconda delle stime fra le 750mila e il milione e mezzo di tonnellate. Le due parti in conflitto, l’Iraq di Saddam Hussein e la coalizione internazionale, si scambiano reciproche accuse. Secondo le fonti occidentali gli irakeni versarono in mare oltre 70mila tonnellate al giorno di petrolio per una settimana, allo scopo di ostacolare il temuto sbarco dei marines sulla costa del Kuwait. Per fermare il flusso tre cacciabombardieri americani distrussero l’oleodotto che portava il greggio dai pozzi al terminale costiero. Del tutto diversa la versione irakena: Baghdad respinse l’accusa sostenendo che l’inquinamento fu provocato da aerei americani che avevano bombardato e distrutto due petroliere a pieno carico attraccate al terminale.
Conflitti militari a parte, il fenomeno del greggio disperso fra le onde riguarda tutti i mari del mondo, danneggiando i più diversi ecosistemi. Nell’aprile del 2010 il cargo cinese Sheng Neng fece naufragio sulla barriera corallina vicino alla costa australiana. Fortunatamente fuoriuscì soltanto una parte del carico, ma quel migliaio di tonnellate di petrolio fu più che sufficiente per colpire a morte un lungo tratto della barriera. Nel novembre del 2002 la petroliera Prestige affondò nel Golfo di Biscaglia provocando una marea nera di oltre 60mila tonnellate che devastò le coste spagnole della Galizia mettendo in crisi la locale industria della pesca.
Particolarmente grave la situazione quando il greggio finisce in un mare chiuso come il Mediterraneo, che non ha la stessa possibilità di diluizione degli oceani. Nell’aprile del 1991 la superpetroliera cipriota Haven fu squassata da un’esplosione mentre si trovava davanti a Genova. Lo scoppio provocò l’incendio del combustibile, che finì in mare continuando a bruciare. Poi la nave dal ventre in fiamme fu trainata al largo, fortunatamente il mare era calmo e in alcuni giorni, prima che la Haven affondasse, l’incendio esaurì la maggior parte del petrolio che aveva a bordo. Il bilancio fu comunque pesantissimo: oltre 140mila tonnellate di greggio finite in acqua, i fondali di quel tratto di Mar Ligure tuttora privi di vita. Bisogna infatti considerare che i danni ambientali provocati da questi disastri tendono a protrarsi nel tempo. Sono ferite che è molto difficile rimarginare, forse addirittura impossibile.
Essendo più leggero dell’acqua, il petrolio forma una pellicola superficiale che impedisce l’ossigenazione in profondità. Questo comporta la morte del plancton, l’anello iniziale della catena alimentare. Il piumaggio degli uccelli intriso di greggio perde la sua funzione termoprotettiva e gli animali muoiono per ipotermia. Inoltre cercano di rimuovere quella fanghiglia col becco ingerendo petrolio. A volte squadre di volontari si adoperano per salvare il salvabile, cercando di portar via il greggio che ricopre spiagge e scogliere o di ripulire gli animali sottraendoli a una fine atroce, ma è come lottare contro un nemico invincibile. Inoltre c’è un rapporto inaccettabile fra la permanenza del danno e la rapida tendenza a dimenticarlo. Così come troppo facilmente si dimentica che i ricorrenti disastri in mare dovrebbero affiancarsi alla ragione principale, l’eccesso di emissioni di gas a effetto serra, per ridurre il più possibile l’uso dei combustibili fossili.
Per limitare gli effetti di queste ferite inferte all’ecosistema ci vogliono anni di costosissime operazioni di bonifica. Intanto il trasporto intercontinentale del greggio non cessa di mettere a rischio l’ambiente, navi a volte prive della precauzione del doppio scafo continuano a solcare i mari, i cantieri di mezzo mondo sfornano superpetroliere sempre più grandi. Aggrediti anche dalle plastiche, gli oceani si avvicinano al punto di non ritorno oltre il quale, nonostante gli apporti idrici dovuti al surriscaldamento che minacciano isole e litorali ma almeno diluiscono i veleni, non potranno più rigenerarsi.