L’ordine mondiale secondo Bush sr.

41.mo presidente Usa – Ha vissuto da leader la dissoluzione dell’Urss, di cui voleva il suo assoggettamento ma non la distruzione, la fine della Guerra fredda, la riunificazione della Germania e le guerre nell’ex Jugoslavia
/ 10.12.2018
di Lucio Caracciolo

George Herbert Walker Bush è passato alla storia come il presidente che ha guidato gli Stati Uniti nella battaglia finale della Guerra fredda, conclusa vittoriosamente con la disintegrazione dell’Unione Sovietica. Sigillo finale di un conflitto miracolosamente tenuto sotto la soglia dello scontro diretto, che avrebbe inevitabilmente coinvolto i rispettivi apparati nucleari, provocando danni forse irreparabili al nostro pianeta. Un trionfo, dunque? Apparentemente sì. Di fatto, e nelle intenzioni di Bush padre, non proprio.

L’obiettivo strategico degli Usa negli anni di Bush, tra fine anni Ottanta e inizio dei Novanta, non era infatti la distruzione dell’Urss, ma il suo assoggettamento all’impero americano. Il presidente temeva, anche se non lo diceva apertamente, che il collasso del Nemico sarebbe stato pericoloso, comunque difficilmente gestibile. Un colosso dotato di una panoplia nucleare e di un’abbondanza di risorse naturali assolutamente invidiabili non poteva scomparire dalla faccia della Terra come se non fosse mai esistito. Chi avrebbe assicurato, ad esempio, il controllo delle bombe atomiche sovietiche? Chi avrebbe evitato che gli scienziati sovietici finissero, magari per denaro, a vendere la propria arte a qualche organizzazione terroristica o a un altro Stato nemico? Come si poteva evitare che i pezzi del puzzle sovietico, ciascuno dei quali aveva un rango e una funzione nell’insieme in decomposizione, non diventassero oggetto di sanguinose, incontrollabili dispute, magari combattute anche all’arma atomica?

Questi ed altri interrogativi angosciosi temperavano la soddisfazione di Bush nel vedere affondare – meglio: autoaffondare – la flotta nemica. Il presidente, sostenuto dal suo entourage di consiglieri geopolitici, tra i quali spiccava Brent Scowcroft, inclinava al realismo. Scuola minoritaria negli Stati Uniti, da sempre segnati dalla vocazione idealistica, che molti scambiano per cinica mascherata, mentre esprime un aspetto centrale dell’identità a stelle e strisce. Bush aveva affinato il suo realismo durante la direzione della Central Intelligence Agency (Cia), il lavoro che probabilmente l’aveva più appassionato nella sua carriera politica.

Il bemolle con cui Bush gestì il precipitoso crollo dell’Unione Sovietica non faceva che riprendere la lezione datata anni Cinquanta di un altro grande presidente repubblicano, il generale Dwight Eisenhower. Consegnata al cosiddetto Solarium Exercise, seminario strategico dal quale l’ex comandante delle forze alleate in Europa durante la Seconda guerra mondiale aveva tratto la convinzione che un attacco diretto all’Urss avrebbe probabilmente portato alla vittoria, ma posto Washington di fronte a un dilemma poco appetibile: «E adesso, che ne facciamo?». La prospettiva di gestire quegli immensi spazi non appariva attraente né sotto il profilo economico né sotto quello geopolitico.

Bush temeva che il collasso dell’Urss avrebbe reso effettivo il drammatico interrogativo di Eisenhower. Per questo fino all’ultimo sperò che Gorbaciov potesse portare a termine il suo progetto, peraltro assai vago, di riforma del sistema sovietico, che lo avrebbe reso inoffensivo ad occhi americani. Anzi, avrebbe permesso la graduale integrazione dell’Urss, democratizzata e aperta al mercato mondiale, nel sistema a stelle e strisce. Questo, non altro, era il Nuovo Ordine Mondiale di Bush.

Su questa base s’intende per esempio perché il presidente si recasse a Kiev, nell’estate del 1991 (a cinque mesi dall’ammainabandiera del vessillo rosso al Cremlino), per ammonire gli ucraini contro le loro ambizioni indipendentiste. Bush non voleva che alla glaciazione geopolitica dell’impero sovietico subentrasse una competizione fra neonazionalismi revanscisti. Meglio un’Urss debole e fondamentalmente asservita alla superpotenza che tanti più o meno grandi spicchi di quell’universo, affidati a più o meno piccoli quanto ambiziosi capetti ipernazionalisti, in competizione per dividersene le spoglie. Inoltre, Bush temeva che la frammentazione dell’Est potesse spingere i tedeschi, che il 3 ottobre 1990 si erano riunificati anche grazie agli Usa, a ripercorrere antichi sentieri orientali, abbandonati in seguito al trauma del 1945 e alla conseguente occupazione interalleata.

Fu poi Gorbaciov a sciogliere il nodo, mettendo gli Usa e il mondo davanti all’inedito suicidio di una superpotenza. Oggi, osservando la guerra in Ucraina e le turbolenze nello spazio intermedio fra Germania e Russia, possiamo stabilire che Bush avesse ragione. Riposi in pace.