Chissà cosa penserebbe Ebenezer Scrooge della Brexit. Tutto preso ad accumulare soldi nella solitudine della sua vita di uomo avido, il banchiere del Canto di Natale di Charles Dickens sarebbe senz’altro felice di non dover più versare soldi a Bruxelles, anche se, con la sua maniacale attenzione ai quattrini, non vedrebbe di buon occhio l’incertezza economica e l’indebolimento della sterlina. Certo, c’è ampio margine per speculare e lui saprebbe trovarlo, ma alla fine dei conti a chi serve un Paese isolato e litigioso, spaccato e senza quello scintillio che ne ha fatto la capitale d’Europa anche quando, ben prima del referendum del 23 giugno del 2016, con l’Europa aveva già ben poco a che fare?
In quest’ultimo Natale ufficialmente europeo, Londra si sente un po’ come il vecchio Scrooge, visitato da fantasmi passati e futuri che gettano mille dubbi sulla strada intrapresa per liberarsi da quello che veniva percepito come il giogo europeo. L’atmosfera, nel migliore dei casi, è quella di chi si prepara ad una decrescita felice, immaginando i vantaggi di un mercato immobiliare in calo del 30% – un bene per chi compra, ma con quali soldi visto che nessuno venderebbe più? – e leggendo senza battere ciglio la notizia che dal 29 marzo, data ufficiale di uscita del Paese dalla Ue, è meglio non organizzarsi vacanze, nel caso non si raggiungesse un accordo con Bruxelles e la situazione precipitasse nella voragine del «no deal» tanto temuto ma anche evocato quasi con voluttà da un Paese in piena sindrome da «cupio dissolvi». Il governo dice che è meglio non partire perché si potrebbe restare bloccati a qualche frontiera e la gente non scende in piazza invocando il ricovero della propria classe dirigente, ormai stordita da una situazione uscita totalmente fuori controllo.
La televisione rimanda immagini violente di un Parlamento dove vanno in scena più drammi shakespeariani che al Globe Theatre: la premier Theresa May è ormai come il toro nell’arena, il livello di aggressività a cui è stata sottoposta da un gruppo di politici prevalentemente maschi e totalmente privi di piani concreti per il futuro l’ha resa simpatica anche ai più riluttanti. A Dickens sarebbe piaciuta, avrebbe sorriso davanti alla sua determinazione da figlia di vicario che non vuole deludere nessuno e va avanti spedita anche davanti all’evidenza di un mondo che le sta andando contro, ne avrebbe colto l’aspetto eroico pur criticandone le durezze. Ma non è terra di sfumature, il Regno Unito del 2018: o si sta da una parte, o dall’altra. O con Theresa o con Boris e Jacob Rees-Mogg, di cui non c’è bisogno di dire cosa penserebbe l’autore di Oliver Twist, avendoli già tratteggiati in molti romanzi.
In due anni e mezzo i britannici hanno sviluppato una tale antipatia gli uni per gli altri che questo, verrebbe da pensare, è il vero argomento per cui la maggioranza ancora non chiede un secondo referendum. Altro che violazione della sacralità del risultato delle urne, il problema è che i «remainers» non vogliono incontrare di nuovo i «brexiters», mentre questi ultimi non vedono l’ora di sfracellare mesi e mesi di attente riflessioni, magari da parte di chi l’uscita dalla Ue l’aveva votata, a suon di «traditori del popolo», «basta con le élites» e «ne abbiamo abbastanza degli esperti». Non è detto che questa antipatia, di cui Theresa May ha un’acuta consapevolezza che non manca di condividere ogni volta che interviene sul tema, ossia tre volte al giorno almeno, non possa essere messa da parte quando non ci saranno altre alternative per evitare il «no deal», sancendo il definitivo fallimento della politica davanti a questioni di questa importanza. Perché è vero che l’economia non è crollata e che la disoccupazione è molto bassa, ma la sterlina debole prima o poi si riverbererà sui prezzi e, soprattutto, quando Londra smetterà di essere alimentata a suon di talenti stranieri – e non solo chirurgi e informatici, ma anche infermieri, cuochi e muratori – la crescita inevitabilmente inizierà a perdere slancio. Gli investimenti, quelli, sono già fermi, e chiunque abbia un’attività nel Paese lo sa bene da anni, tanto che la CBI, la Confindustria locale, ormai si attacca a chiunque gli dia un’idea sulla morte di cui morirà l’economia britannica.
Il «deal» della May, con tutti i suoi difetti, ha la virtù di essere chiaro, di dare un po’ agli uni e un po’ agli altri, di non lasciare l’Irlanda in balia di un confine che nessuno vuole e di mettere fine all’immigrazione europea (che non è un bene in sé, al contrario, ma accontenta gli elettori). Qualcuno se n’è già andato, altri si affrettano a prendere la cittadinanza britannica, chi ha messo radici non vuole sentirsi in balia delle regole e dei dibattiti politici: un po’ di Brexit può essere divertente per qualche mese, ma a un certo punto l’incertezza diventa pesante, i «citizens of nowhere», come li chiamava la May nel suo periodo filo-populista, hanno una gran voglia di starsene a casa loro, quella che si sono costruiti. Ora sono tutti stanchi, a Londra. I politici, soprattutto, a furia di cercare un modo per distinguersi in questa confusione, per far sì che quando la mareggiata sarà passata sul loro curriculum resti l’aver fatto almeno un po’ la scelta giusta, quella che la storia giudicherà come giusta.
Il secondo referendum trasuda idealismo e speranze giovanili, si porta bene tra chi vuole calarsi gli anni e tra le chattering classes, quegli intellettuali progressisti che sono una meraviglia, ma che non si ricordano cosa voglia dire un pub di provincia dove le copie dei tabloid si arricciano sotto l’umido delle pinte di birra. I più realisti tra loro lasciano scivolare «l’opzione norvegese» tra una tartina e l’altra alle cene di Islington. Il «no deal» piace agli iper-volontaristi, quelli che pensano che tutto si possa risolvere con la disciplina imparata a Eton o in qualche scuola privata per fanciulle, e a chi non ha niente da perdere. L’accordo della May non piace a nessuno, proprio a nessuno. Non garantisce gloria, non è chic. Ma è concreto, e soprattutto permetterebbe di voltare pagina, di pensare al futuro. Anche a Ebenezer, alla fine, potrebbe non dispiacere.