Non capita spesso che i politici siano costretti ad occuparsi di immigrazione in maniera seria, concentrandosi sui fatti concreti e senza nascondersi dietro agli slogan populisti. Per una strana congiuntura, è quello che sta toccando in questi mesi al governo del Regno Unito, dove uno scandalo che aleggiava da tempo è esploso tutt’a un tratto in maniera violenta: quello del trattamento degli immigrati afrocaraibici della cosiddetta generazione Windrush, arrivati tra il 1948 e l’inizio del 1973 su invito del Paese stesso, messo in ginocchio dalla guerra e bisognoso di nuove energie per ricostruirsi.
Alle migliaia di nuovi arrivati era stata assicurata la cittadinanza britannica e per decenni queste persone hanno vissuto in relativa tranquillità, fino a quando la stretta sull’immigrazione illegale, voluta ai tempi in cui Theresa May era ancora ministro dell’Interno, ha portato a galla i primi problemi: molta gente non aveva documenti per dimostrare di essere legalmente nel Paese e, anche dopo una vita nel Regno Unito, in tanti sono finiti vittima di incubi burocratici per avere assistenza sanitaria e trovare lavoro. In 63 sono stati addirittura rimpatriati. Con una mossa surreale, le carte di sbarco, unica prova del loro arrivo legale, erano state distrutte qualche anno fa: nel 2010 dai Tories, dice il Labour, nel 2009 dai laburisti, ha detto una premier May in grave difficoltà. Uno scaricabarile che serve a poco e che dà il senso di un atteggiamento diffuso e radicato di mancanza di accettazione di una parte della società: migliaia di immigrati e i loro figli si sono ritrovati ad essere trattati come fantasmi.
Più o meno negli stessi giorni in cui è emerso il caso Windrush, Londra è finita al centro delle cronache di tutto il mondo per aver superato New York nel tasso di omicidi, con 62 morti violente dall’inizio dell’anno – 36 accoltellamenti e almeno sei sparatorie mortali – e un numero ancora più inquietante di accoltellamenti non mortali, calcolati tra i 300 e i 400 solo nel 2018. È servito il confronto con la metropoli americana per portare l’opinione pubblica a fare i conti con una verità nota da tempo e sorprendentemente trascurata per un semplice motivo: la violenza è legata alle gang e in una certa forma riguarda i ragazzi neri che sono vittime e carnefici di una strage che va avanti da anni e che, non mettendo a repentaglio la «gente comune», non fa notizia. Una violenza tra fantasmi, tra ragazzi senza prospettive che temono un’umiliazione sui social network più della prigione e forse della morte stessa, che sono costretti a proteggersi dall’ambiente in cui vivono mostrandosi duri e spietati come nei popolarissimi video di musica «drill» che inneggiano alla violenza. Video che, con i loro milioni di click su youtube, rappresentano anche l’unico orizzonte di successo per delle vite che gli assistenti sociali descrivono come caratterizzate da una sola parola: «hopelessness», disperazione.
C’è una terza vicenda che seguendo un fil rouge ideale si inanella con le due precedenti, ed è quella dell’omicidio del giovane nero Stephen Lawrence, avvenuto per motivi razziali venticinque anni fa e oggetto di una delle pagine più vergognose della storia della polizia di Londra, tra i cui ranghi sono emersi «razzismo istituzionale», incompetenza e addirittura corruzione per coprire i balordi bianchi che avevano aggredito a coltellate il diciottenne di origine giamaicana mentre aspettava ignaro l’autobus una fredda sera di fine aprile del 1993. Ci sono voluti quasi vent’anni perché la verità venisse finalmente a galla e perché alcuni dei colpevoli finissero in carcere. La BBC ha dedicato alla vicenda un bellissimo documentario intitolato Stephen: l’omicidio che ha cambiato il Paese e sicuramente è vero, sicuramente da allora nelle istituzioni non è più tollerabile nessuna forma di discriminazione e la sensibilità è cambiata, anche se il memoriale costruito per il ragazzo nel 2008 ha avuto i vetri spaccati dopo poche settimane. Però il problema degli accoltellamenti nel Regno Unito non è sparito, solo che invece di essere a sfondo razziale, si è concentrato sui regolamenti di conti tra bande. Tornando ad essere ignorato, cancellato via da una popolo insuperato nell’arte di rimettersi in piedi dopo i traumi e tornare a fare come niente fosse.
L’ambiguità costruttiva con cui spesso Londra gestisce i suoi dossier, non ultimo quello della Brexit, può essere molto efficace, ma ha un grave limite: a un certo punto i nodi vengono al pettine, e in questa primavera in cui si dovrebbe parlare solo di futuro dopo l’Europa tutti i problemi sono emersi contemporaneamente. Il caso della generazione Windrush ha portato alle dimissioni del ministro degli Interni Amber Rudd, fidatissima collaboratrice della May, e alla sua frettolosa sostituzione con Sajid Javid, conservatore di ferro di famiglia immigrata e quindi naturalmente in grado di cogliere un certo tipo di sensibilità. Sono stati promessi risarcimenti, vie preferenziali alla nazionalità, e Javid ha anche preso le distanze da un «contesto ostile» definito «così poco britannico», che ha segnato gli anni della May e della Rudd all’Home Office. Il Regno Unito ha disperato bisogno di alleati all’interno del Commonwealth, famiglia alternativa a quella Ue che si accinge a lasciare, e ha bisogno di proiettare un’immagine giusta, tollerante, aperta se vuole guardare oltre i confini europei.
Il trattamento della Windrush Generation, con tutte le sue particolarità, ha messo in ulteriore allarme i tre milioni di cittadini europei che vivono nel Regno Unito e che nel clima attuale non si fidano delle mosse del governo per regolarizzarli. I britannici, popolo fiero di non avere una carta d’identità, sta facendo i conti con l’idea di dover introdurre una qualche forma di documento che non sia il passaporto per evitare che si crei una confusione che molti ritengono non casuale, strategica e fatta apposta per poter rispettare le promesse politiche sulla riduzione dell’immigrazione a «decine di migliaia» di persone all’anno. Tra europei e afrocaraibici c’è però una differenza, dolorosa. Questi ultimi hanno contribuito al Paese in maniera sostanziale, ma spesso non hanno raggiunto quello status economico che ha permesso loro di ottenere un rispetto diverso da parte delle autorità. Non stupisce che un clima ostile e la mancanza di riconoscimento abbia peggiorato la loro situazione: membri della società, ma solo a metà, alcune minoranze etniche sono ancora vittime di pregiudizi e le ultime generazioni, come dimostrano i casi di violenza e il tasso di disoccupazione altissimo, non se la passano meglio dei loro padri. Al contrario, per molti ci sono meno speranze, più disincanto e questo è uno dei grandi temi che il Regno Unito post-Brexit deve dedicarsi a risolvere.
Del Royal Wedding e di Meghan Markle si è detto molto, forse tutto. Ma è dietro la frivolezza e la fatuità dei vestiti, dei fiori e delle torte delle grandi rappresentazioni pubbliche che si annidano i simboli più potenti e il fatto che il principe Harry abbia scelto di sposare una intraprendente ragazza con una madre single afroamericana che lavora come assistente sociale e insegnante di yoga e che fino a qualche giorno prima del matrimonio è rimasta a Los Angeles a fare la sua vita di sempre è l’evento più progressista di questo 2018 alla disperata ricerca di una direzione.