Non si ritirerà facilmente, l’ondata populista che ha travolto il Regno Unito, spaccato gli Stati Uniti e che continua a lambire molti paesi dell’Unione europea, dopo averne conquistati definitivamente un paio. «Il genio è uscito dalla lampada», come ebbe a dire Nigel Farage alla chiusura dei seggi del referendum sulla Brexit, quando pensava ancora che avesse prevalso il voto a favore del remain. Che invece, come tutti sanno, ha perso, dando un giro di vite all’autostima di quella classe politica che dagli anni Sessanta a oggi, solo in Europa, è passato dal 5% al 13,2% dei voti e che, secondo la maggioranza degli esperti interpellati dalla rivista «Foreign Politics», non è destinata a sparire a breve.
Che sia il colpo di coda di una generazione di elettori che si è sentita messa da parte dalle evoluzioni sociali e culturali, prima ancora che dalla crisi economica, o che sia l’inizio di una nuova era politica in cui la verità e i fatti saranno considerati come qualcosa di superato, il referendum britannico e le elezioni americane hanno cambiato per sempre il modo di fare politica. Nel giro di pochi anni i temi all’ordine del giorno sono rimasti pressoché invariati – al centro ci sono sempre l’immigrazione e il conservatorismo sociale – mentre è molto cambiato il tipo di dialogo che il politico populista ha instaurato con il suo elettorato. L’attacco continuo alle élite da parte di gente che siede in Parlamento da decenni o che, come nel caso di Trump, ha un grattacielo su Fifth Avenue, è uno strumento retorico efficace, ma non basta a spiegare il successo di Farage&Co, secondo Jan-Werner Müller, professore di Princeton e autore di Cos’è il populismo?, importante lavoro uscito a settembre. Il vero punto che accomuna tutti i populisti e che Trump ha espresso con primitiva chiarezza è il fatto di sostenere «che loro, e loro soltanto, rappresentano la gente reale».
Il candidato repubblicano alla Casa Bianca, poco avvezzo ai mezzi termini, ha scritto che «su ogni singola questione importante che riguarda questo paese la gente ha ragione e le élite al governo hanno torto». Secondo Müller «la logica populista implica che chiunque non sostenga i partiti populisti non possa far parte della “gente reale” e anche qui Trump è stato il più espressivo: «L’unica cosa importante è unire le persone, perché le altre persone non significano niente». E che quelle persone siano in prevalenza maschi bianchi di una certa età con pochi titoli di studio, una minoranza difficile da persuadere a votare altrimenti, non significa che si possano trascurare in futuro, perché le loro preoccupazioni sono contagiose. Da uno studio del Chicago Council on Global Affairs è emerso che immigrazione e globalizzazione sono due temi che hanno acquisito un’importanza crescente in tutte le fasce dell’elettorato, anche le più tradizionalmente liberali. Inoltre, la distinzione tra destra e sinistra sembra ormai essere stata soppiantata da quella tra cosmopoliti e nativisti, complice un divario crescente tra le città e le campagne che si stanno svuotando e trasformando in sacche di scontento, in grado di rendere difficile formulare politiche complesse, soprattutto a livello europeo, sul commercio e gli affari esteri, come dimostrato dal recente veto della Vallonia a ratificare l’accordo commerciale con il Canada.
Essendosi ritrovata a gestire per prima le conseguenze di un voto che senza la consumata retorica populista di Ukip avrebbe senz’altro avuto altri risultati, o forse non ci sarebbe proprio stato, la premier britannica Theresa May ha cercato di fare suo parte di questo approccio per lanciare un messaggio chiaro all’elettorato brexiteer, soprattutto quando ha detto la sua frase sui «cittadini del mondo che non sono cittadini di nessun luogo», facendo arrabbiare tantissimo il canadese Mark Carney, governatore della Banca d’Inghilterra, che si è sentito preso di mira. Complice un deserto assoluto a sinistra – gli ultimi sondaggi danno i Tories al 43% e il Labour al 27% - la May sta cercando di usare l’asso pigliatutto, annunciando una brusca inversione di tendenza rispetto al liberismo thatcheriano e profilando un ruolo dello Stato molto più forte di quanto sia tradizionalmente accettato tra i conservatori. La sua durezza in materia di immigrazione, l’attenzione alle famiglie che fanno fatica ad arrivare a fine mese e i suoi riferimenti alle politiche del passato, un po’ nostalgiche, sono un modo per cercare di liberare il campo da ogni dubbio su da che parte stia lei, soprattutto in vista di un negoziato sulla Brexit così tecnico che anche l’astrofisico Stephen Hawkings ha ammesso di non capirci nulla.
Se non tutte le ragioni che hanno portato a votare contro la Ue sono da ascrivere al populismo, quelle a favore di una «hard Brexit» dannosa sotto il profilo economico lo sono molto di più e May deve evitare a tutti i costi che Ukip aizzi l’opinione pubblica nelle fasi più delicate del negoziato. La premier, che sta tenendo un profilo basso e sta evitando di farsi trascinare in polemiche, ha dalla sua parte il fatto di poter rubare politiche a destra e a sinistra in modo da ergersi a paladina del popolo e emergere come la figura forte nell’alleanza tra conservatori sociali e fautori del libero mercato che alberga all’interno nel suo partito. Populista negli annunci e pragmatica nelle politiche, la May sta portando avanti un esperimento che può non piacere, ma che potrebbe dover essere seguito dai politici di tutto il mondo. Vedremo come la decisione dell’Alta Corte di Londra del 3 novembre scorso, che impone un pronunciamento del Parlamento britannico sulla Brexit, influirà sulle sue scelte.