L’ombra di Trump?

Usa – La vicenda che coinvolge Jeff Bezos, il fondatore di Amazon e editore del «Washington Post», assume contorni da vera spy-story con editori amici di Donald Trump e reali sauditi
/ 18.02.2019
di Christian Rocca

Il presidente degli Stati Uniti, l’uomo più ricco del mondo, un tabloid trash, il quotidiano del Watergate, l’Arabia Saudita, la Russia, gli hacker informatici, le inchieste sulla manipolazione delle elezioni del 2016, un dissidente fatto a pezzi a colpi d’ascia dentro una sede diplomatica, fiumi di denaro, tradimenti, foto e messaggi intimi spiattellati on e offline e, sullo sfondo, la grande battaglia per salvaguardare la democrazia americana. Tutto questo nella stessa storia, in un’unica storia, probabilmente il feuilleton più importante di questo scorcio di Ventunesimo secolo.

I fatti: a gennaio di quest’anno, il fondatore di Amazon Jeff Bezos e sua moglie Mackenzie hanno annunciato il divorzio qualche ora prima della diffusione dei messaggi erotici di Bezos e della sua amante, la giornalista televisiva Lauren Sanchez, pubblicati da un tabloid scandalistico, il «National Enquirer». Questo tabloid è di proprietà di David Pecker, grande amico di Donald Trump. Mesi fa Pecker è stato messo sotto inchiesta dal procuratore Robert Mueller che indaga sulle complicità del team Trump nell’ingerenza dei servizi segreti russi sul processo elettorale americano che nel 2016 ha portato all’elezione a sorpresa di Trump alla Casa Bianca. Prima del voto del 2016, assieme all’avvocato di Trump Michael Cohen, anche lui sotto schiaffo di Mueller, Pecker ha comprato con 150mila dollari il silenzio di una modella di Playboy che avrebbe voluto raccontare il suo rapporto con Trump.

Messo alle strette, anche dall’ammissione di colpa dell’avvocato di Trump, Pecker ha confessato di aver pagato la ragazza e ha patteggiato una pena con il procuratore Mueller (un accordo che gli evita la galera ma che, tenetelo a mente, non ha più valore se entro tre anni lo stesso Pecker commette altri reati). Si favoleggia, inoltre, di altri segreti politici compromettenti custoditi nella cassaforte del «National Enquirer», ma questa è un’ulteriore diramazione della storia di cui ancora si sa poco anche se si sospetta molto. In ogni caso, Pecker gode di grande accesso e familiarità non solo con il presidente americano ma anche con il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MBS), che ha incontrato sia a Riad sia in America e per il quale ha confezionato, in occasione della sua visita a Washington, il numero unico di una rivista patinata dedicata al «tocco magico» con cui un leader illuminato come MBS guiderebbe il regno saudita.

Bezos, invece, è odiato da Trump. Il presidente è convinto che il «Washington Post», acquistato dal fondatore di Amazon nel 2013, critichi furiosamente la Casa Bianca su indicazione precisa di Bezos e, per questo motivo, ha più volte proposto via Twitter di alzare le tariffe del Postal Service in modo da colpire il business delle spedizioni di Amazon. A ottobre, un editorialista del «Washington Post», Jamal Khashoggi, dissidente saudita trasferitosi in America, è scomparso dentro il consolato saudita di Istanbul, in Turchia, dove era andato, tratto in inganno dai servizi sauditi, per ritirare un documento per il suo matrimonio. Successivamente si è scoperto che al consolato Khashoggi è stato torturato, ucciso e fatto a pezzi a colpi di ascia dai sauditi su ordine del leader di Riad. Il «Washington Post», da quel momento, si è impegnato in una campagna pubblica per inchiodare alle sue responsabilità il regime saudita.

In questo contesto, con il «Washington Post» di Bezos contro i sauditi che hanno ucciso un loro giornalista e con Trump molto vicino ai sauditi e contro Bezos, il «National Enquirer» dell’amico di Trump e dei sauditi ha pubblicato i testi dei messaggi privati che hanno causato il divorzio più costoso di sempre perché i Bezos, insieme, valgono 160 miliardi di dollari.

Bezos ha incaricato un noto investigatore privato, Gavin de Becker, di condurre un’inchiesta per scoprire chi gli avesse hackerato il telefono.

La settimana scorsa, Bezos ha scritto su «Medium» un post per denunciare di essere stato oggetto anche di un tentativo di estorsione da parte della società editrice del «National Enquirer» che minacciava di pubblicare ulteriori messaggi e anche alcune fotografie che Bezos e la sua amante si sono scambiati durante la loro relazione. Anziché cedere al ricatto, Bezos lo ha denunciato pubblicamente scrivendo l’articolo e sottolineando una duplice bizzarra richiesta degli estorsori: fermare l’inchiesta privata sull’hackeraggio e smentire gli articoli del «Washington Post» secondo cui la pubblicazione dei messaggi privati da parte del «National Enquirer» è stata un’operazione motivata politicamente e per colpire un avversario di Trump.

Bezos ha aggiunto un ulteriore elemento: «Per ragioni ancora da capire, il lato saudita della vicenda sembra aver toccato un nervo molto sensibile» di Pecker, il quale ricattando Bezos ha messo a rischio, come detto prima, il patteggiamento con il procuratore Mueller. Per quale motivo Pecker era così «furibondo», per usare la definizione scelta da Bezos, e che cosa vuole nascondere di così importante al punto di mettere a rischio, con la tentata estorsione, l’accordo extragiudiziario che gli ha evitato di finire in carcere? 

Non lo sappiamo ancora, ma il fatto che qualcuno sostenga che a passare i messaggi al «National Enquirer» sia stato il fratello dell’amante di Bezos, Michael Sanchez, un amico di due ambigui ex consiglieri di Trump, entrambi incriminati e arrestati nel Russiagate, Roger Stone e Carter Page, non fa altro che aggiungere mistero a mistero e a rendere la vicenda ancora di più una tragica pochade. Le parole di Bezos sul «lato saudita» della vicenda, confortate dall’inchiesta del suo investigatore privato, hanno dato sfogo a molte teorie su un coinvolgimento saudita, oltre a quello già noto dei russi, nelle elezioni presidenziali del 2016, aprendo potenzialmente un altro fronte investigativo contro Trump, portatore di una politica estera molto più filosaudita rispetto alla comunque tradizionale amicizia americana con il regno dei Saud.