Con Donald Trump alla Casa Bianca, cosa succederà in Venezuela? Se il neopresidente statunitense è determinato a far saltare tutti gli accordi con Cuba presi nella lunga e difficile mediazione tra l’ex Amministrazione Obama e il presidente cubano Raùl Castro, disgelo diplomatico compreso, cosa accadrà nel Venezuela chavista? A Caracas la trattativa tessuta da Washington per scongiurare la guerra aperta tra i chavisti del presidente Maduro e gli antichavisti all’opposizione era, prima del risultato delle presidenziali americane, ottimamente avviata con l’aiuto prezioso della «diplomazia hollywoodiana di Chàvez».
Ora che il presidente degli Stati uniti è Trump, difficile immaginare l’attore Sean Penn o il regista Oliver Stone, entrambi appassionati della causa chavista, in missione politica a Caracas per conto, anche se informalmente, della Casa Bianca.
L’elezione di Trump sbarra la strada percorsa finora dagli sherpa di Obama, ma non è detto che non ne possa aprire un’altra. Chissà, per esempio, che Trump non decida di fare un regalo al presidente russo Putin.
Se decidesse di offrire un ruolo di triangolatore al suo amico Putin, che a Caracas ha da curare interessi russi pubblici e privati (46 miliardi di dollari già investiti solo nel petrolio, per esempio) e se Putin decidesse di giocarselo per guadagnarsi l’aureola di buon mediatore internazionale, Trump potrebbe anche ritrovarsi a trionfare laddove la molto bene intenzionata diplomazia di Obama ha fallito. Potrebbe ritrovarsi in mano la soluzione per una transazione non violenta verso un equilibrio politico venezuelano post Chàvez.
Perché Trump dovrebbe occuparsi di Caracas? Perché alla Casa Bianca la parola Venezuela vuol dire tre cose: petrolio, interessi russi e voti in Florida. Senza sporcarsi le mani Trump potrebbe usare Putin, facendolo contento, e sparigliare le carte.
L’unica volta che Trump si è riferito al Venezuela è stato durante un atto di campagna elettorale a Miami. Ne ha parlato come di «un paese bello, vibrante e meraviglioso» in cui vive «un grande popolo terribilmente ferito dai socialisti». E fin qui, tutto secondo il tradizionale copione del candidato americano alla presidenza che quando parla a Miami non può permettersi nessuna concessione nei confronti di Cuba e del Venezuela senza perdere il prezioso voto della gran parte degli immigrati cubani, ai quali negli ultimi dieci anni si sono aggiunti, in numero crescente, molti venezuelani.
I capitali russi in Venezuela sono cresciuti molto discretamente dopo l’arrivo di Chàvez al potere nel 1998. C’è denaro russo ovunque. Dal 2008 esiste un consorzio di imprese petrolifere russe (Rosneft, Lukoil, Gazprom Neft, Tkk-Bp e Surgutneftegaz) per fare affari in Venezuela. Dal 2010 il consorzio ha creato «Petromiranda», una joint venture dal capitale per il 40% russo e per il 60% venezuelano, per utilizzare l’area petrolifera Junin 6. Il consorzio l’ha creato Igor Sechin, ex Kgb, direttore dell’impresa statale russa Rosneft. Spedito da Putin ai funerali di Chàvez insieme a Serguéi Chémezóv, altro veterano del Kgb, direttore della corporazione russa Rostechnologia per l’esportazione della tecnologia militare russa.
Interlocutore interessante per Putin, nel dossier venezuelano, potrebbe essere Rex Tillerson, il nuovo Segretario di stato statunitense. Tillerson, prima della chiamata di Trump, era l’amministratore delegato della ExxonMobil. Prima di cambiare assetto, nel 1972, la Exxon era la Standard Oil del New Jersey. A Caracas operava attraverso una filiale locale, la Creole Petroleum Corporation, nazionalizzata nel 1976. Quando, vent’anni dopo, il Venezuela decide la apertura petrolera e permette così il ritorno delle compagnie straniere, torna anche la Standard Oil che nel frattempo è diventata ExxonMobil e punta alla riserva di petrolio più grande del mondo, quella della fascia del fiume Orinoco.
Nel 2007 l’allora presidente Hugo Chàvez decide di permettere l’estrazione in Venezuela solo alle compagnie che accettano di formare imprese miste con lo Stato venezuelano, che deve mantenere almeno il 51% del capitale. Accettano tutte le società presenti, tranne la Conoco-Phillips e la ExxonMobile che ricorrono a giudizi internazionali. Exxon chiede un indennizzo di 10 miliardi di dollari. Ne ottiene uno da un miliardo di dollari.
Al di là della retorica da comizio, Caracas non può rompere con gli Usa. Non sopravviverebbe. Petroleo de Venezuela, Pdvsa, l’impresa pubblica del petrolio venezuelano che è proprietaria in terreno statunitense di una grande impresa (ipotecata), la Citgo, e di alcune raffinerie, non può perdere il mercato americano. Anche perché i suoi altri grandi contratti di fornitura non le garantiscono contanti. Le principali forniture venezuelane sono per la Cina, che da anni non dà un dollaro in cambio del petrolio che riceve in virtù di accordi stipulati per vecchie aperture linee di credito ripagate in petrolio futuro. Inoltre, i partner politici dell’era della petrodiplomazia di Hugo Chàvez (Cuba ed altri partner dell’accordo Petrocaribe) ricevono petrolio a prezzi di favore e quindi pagano molto poco e molto tardi.
Paradossalmente venti anni di rivoluzione chavista hanno reso il Venezuela molto più dipendente di prima dagli Stati Uniti.